Estratti da Protagonisti d’Italia (volume I)

 

… come calando un fugace sipario ad interruzione di immagini forti, P. ricorda un giorno di fine aprile del 1945, pochi giorni prima della Liberazione. Le città italiane erano insorte, Genova si era liberata da sola ed il CLN imponeva agli occupanti tedeschi il definitivo atto di capitolazione. In tutta Italia le formazioni partigiane scendevano a valle, mentre i tedeschi, stanchi e sconfitti, tentavano in ogni modo di superare la Linea Gotica per tornare in patria. Quel giorno un gruppo di amici partigiani di P. andò a prenderlo a scuola. Uno di essi, per celebrare l’imminente Liberazione, gli pose uno Stenn, un fucile mitragliatore con la canna cava in ferro, il ragazzo lo afferrò ed, esibendosi in una giocosa danza di guerra, diede spettacolo davanti ai compagni festanti ed esultanti. Ma quello stesso giorno accadde un evento che avrebbe turbato per sempre negli anni, sino ad oggi nel ricordo, la sensibilità di P. Quel pomeriggio infatti transitò nelle vicinanze di Cairo Montenotte un gruppo isolato di tedeschi in ritirata, essi erano circa una settantina e costituivano un gruppo molto eterogeneo. Infatti negli ultimi tempi il Terzo Reich aveva richiamato alle armi in servizio effettivo anche i ragazzi di sedici anni e gli uomini fino ai settanta e addirittura bambini di 12 o 14 anni ricevevano un fucile con l’ordine di “combattere o morire bene”. Dopo circa dieci minuti per la stessa strada passò un ragazzino pallido e minuto, anch’egli tedesco, era rimasto indietro ed era da solo. P. era in strada con i partigiani che, accerchiato l’inerme nemico, lo presero a forza e lo condussero dietro una costruzione di mattoni, una specie di monumento dalla forma circolare. Il giovane P. non si unì ad essi, di colpo calò il suo entusiasmo e, rimasto da solo sulla strada, udì inconfondibili gli spari, lo uccisero senza un perché...

 

 

 

… l’estate, che si era prolungata sino all’autunno, aveva lasciato spazio ad un inverno molto rigido. Nella popolosa casa colonica, composta da abitazioni, magazzini, stalle e depositi, organizzata per assolvere alla multiple funzioni e necessità della piccola comunità di Tazza di Pieve Torina nella campagna marchigiana, convivevano diverse famiglie unite dalla stessa attività, il lavoro agricolo, predominante nell’Italia dell’epoca. In una triste, fredda e uggiosa giornata, che sarebbe purtroppo rimasta indelebile nella memoria di chi le voleva bene, stroncata da una broncopolmonite fulminante, chiudeva gli occhi per sempre la mamma del piccolo B. di soli due anni e della sorellina di appena quaranta giorni. Il freddo intenso delle ultime settimane, l’alimentazione frugale della dieta contadina, ed in special modo di quella femminile dell’epoca, che prevedeva per le donne la metà del fabbisogno calorico e proteico giornaliero di quello riservato agli uomini, la durezza delle abitudini, come il levarsi al mattino con il sorgere del sole, rassettare la casa, preparare il pranzo e la cena, lavare alla fontana, esposta ai venti all’aperto e con l’acqua gelata, i panni ed i pannolini dei piccoli, del puerperio e gli abiti da lavoro degli uomini ed il partecipare infine a tutte quelle incombenze quotidiane che la vita agricola comportava per ogni individuo, al di là del sesso o dell’età, sia con gli animali che con la terra, avevano indebolito le difese immunitarie di G. che, recente di gravidanza e di faticoso parto, contrasse la broncopolmonite.

La penicillina era già stata scoperta da Fleming da tre anni ma ce ne sarebbero voluti ancora altri nove, affinché questa fosse isolata, ed un altro decennio ancora perché iniziasse a diffondersi con successo terapeutico in Italia. Le cure, che il medico condotto prescriveva, erano pressappoco le stesse che le donne di casa praticavano per esperienza tramandata dalle antiche tradizioni popolari…

 

 

 

… avevo circa nove anni quando il payés compì sotto i miei occhi un esperimento chimico. Costui era un uomo di mezza età, minuto e dimesso, un contadino aragonese che coltivava i suoi campi nella fertilissima Catalogna. Il vestiario del payés era quello tipico dei campagnoli del luogo: pantaloni lunghi di colore sobrio, camicia bianca con maniche rimboccate sino sopra il gomito, fascia in vita, berretto frigio da rivoluzionario giacobino e "alpargatas", ovvero calzature di tela con la suola di corda. Ricordo che in estate, quando accompagnavo mia madre al mercato per fare la spesa, abbreviavamo la strada, passando attraverso i campi del payés, dove ci soffermavamo davanti alla casupola di pietra, in cui egli conservava gli attrezzi da lavoro, per riprenderci dalla calura d'agosto all'ombra di un maestoso pino mediterraneo dall'enorme chioma e sotto uno scrosciante fragore di cicale. Spesso il contadino era lì seduto su di una cassetta di legno, mangiando pane e fave, lanciando di tanto in tanto croste dure e tozzi di quel pane secco ad un muscoloso e guanciuto gattone bianco e nero, lasciando noi affascinate da quell'insolita scena di sobrietà felina…

 

 

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