Un uomo… una sera
Una volta in strada capì che non c’era più nulla da fare, che le sue scarpe non avrebbero mai più calpestato le vie del passato, e che non sarebbero più tornate le risate fatte di sicurezza e superficialità.
S’incamminò come sangue che crea nuovi capillari per continuare a scorrere, a scorrere sempre nonostante tutto.
Ora la sua direzione la decideva il vento, che lo sospingeva come un cuore immenso, entrandogli nel cappotto, cercando di sollevarlo quasi dal suolo, per accarezzarlo, per farlo risentire nuovamente parte del tutto, e parte piccolissima.
Ad un tratto si fermò, più forte di quel vento che voleva confondere i pensieri e bloccare le parole, entrando nella gola come aria fredda. Si voltò come se stesse attendendo qualcuno, ma non c’era ricerca nel suo sguardo e non c’era attesa nel suo ondeggiare leggero. Poi si voltò di nuovo e si lasciò portare come vela nera in quell’oscurità che poteva chiamarsi quasi notte.
Le luci dei negozi erano state appena spente, e tutt’intorno c’era un silenzio di tanto in tanto rotto dalle poche voci urlate da televisori distanti.
Non c’erano più pensieri. Adesso era solo occhi serrati, come per tagliare tutta quell’oscurità, come per trasformare il destino in una scelta.
Se ci fosse stato qualcuno lì, fermo ad osservare, forse avrebbe udito il rumore dei suoi passi, regolari come i tasti di una macchina da scrivere mentre battevano una storia illeggibile, ed avrebbe visto un uomo divenire un punto scuro che si confondeva nella notte, facendosi sempre più lontano su una delle tante strade di quella città immensa.
La strada si piegava irregolare sulla destra, come avviene in qualche incubo. Nel camminare gli sembrava di scivolare sempre più verso il baratro, e poi giù, oltre il parapetto.
Dopo quella curva c’era una piazza non grande e non piccola, e c’era qualche bar un po’ di luce, un po’ di gente.
Attraversò quella vita senza accorgersene e svoltò verso una stradina molto piccola e buia.
Alle sue spalle c’era una porta chiusa, e dietro di essa una chiave che non gli sarebbe più servita.
Dopo lo scatto della serratura era cambiata qualcosa, oppure era stato solo il suono tardivo di una decisione ormai presa da anni, e lasciata ingiallire come una vecchia foto importante, sotto i documenti e le ricevute di una vita sbagliata.
Chissà cosa ci aveva trovato in quella vecchia foto; forse c’era un sorriso, che nonostante i tarli e le tinte che stavano sparendo nel tempo, era rimasto inviolato, e c’erano due occhi un po’ chiusi di una donna rivolti verso un futuro che non sarebbe arrivato; o forse c’era solo un paesaggio e dei profumi che improvvisamente erano voluti tornare, c’era la sua gioventù che si dispiegava davanti al mondo ancora come un quaderno bianco sul quale era scritto solo un nome.
Sparì nel buio di quel vicolo e nessuno lo notò, e nessuno capì se era la fine di quella sua vecchia vita, fatta di oggetti inutili e di un’unica foto; o l’inizio di una nuova vita ancora tutta da scattare e da odorare.
Intanto la pioggia aveva sostituito il vento e scendeva leggera come una carezza, ripulendo il mondo e disperdendo ogni decisione.
9 dicembre 2006
(Luigi Ventriglia)
L’ultima volta nella quale ti ho detto ciao
Erano le quattordici e trenta di un giorno di dicembre. Il cielo era terso e c’era un sole rosa, uno di quelli che vengono dopo le piogge intense, uno di quelli che dovrebbero cacciare via tutte le tristezze, quando la mia amica mi chiamò.
Sentii il telefono tremare nella tasca interna del mio cappotto nero. Andavo di fretta, e così stavo quasi per non rispondere.
- Ciao !
- Ciao!
Oltre la sua debole voce c’era fracasso di vetri e di pannelli che sobbalzano su una strada malconcia ed il suono di un motore che tossiva bronchite. Era il rumore di un pullman lanciato su una strada di questa città.
- Volevo solo dirti che ti voglio bene.
- Anch’io te ne voglio tanto, ma che c’è?
- Niente, tutto a posto. E’ solo che volevo dirtelo e basta, perché non sempre la vita ci da il tempo di farlo.
Ad un tratto la sua voce si trasformò quasi in un sussurro, e dopo aver deglutito, continuò:
- Sai, lei adesso è seduta davanti a me. Ha i capelli raccolti in un chignon, cosi posso finalmente rivedere il suo collo, come quella volta che ti ho raccontato, proprio come quella prima volta.
Allora sorrisi un po’ e le dissi che era unica e che era davvero pazza .
Poi ci salutammo come sempre, senza troppe gentilezze, e senza dirci un altro “ciao”, perché i “ciao” sono fatti solo per i principi e non per il dopo.
Quella fu l’ultima volta nella quale udii la sua voce.
E poi venne quel dopo.
Mi dissero che quel giorno, nella su borsa non c’erano i libri dell’ università, ma la pistola di suo padre.
Era salita su quel pullman per rivederla un ultima volta, per salutarla nel silenzio fatto di occhi bassi.
E poi non gli mancava più nulla, non doveva fare più nulla.
“Non l’avrei mai detto”, si dice sempre così; e poi, “l’ho sempre vista ridere”, anche questo si dice sempre.
Forse aveva cercato, cercato per troppo tempo ed era stanca di cercare; forse aveva percorso già tutte le strade e non c’erano più curve e misteri sul suo orizzonte, oppure forse era stato il velo della materia che all’ improvviso era diventato troppo spesso, e così i suoi sogni erano diventati impossibili ed i suoi pensieri avevano smesso di divenire parole.
Su quelle scale doveva aver tremato tanto. Lo fece nell’oscurità di un portone. Sapeva che non sarebbe stato uno bello spettacolo e, come al solito, non voleva disturbare.
Ci sono pensieri stupidi che non dovrebbero nemmeno esistere, ma che sanno attendere e attendere i loro attimi, ed allora sanno essere seri e freddi come ghiaccio sporco ai margini delle strade in attesa della ruota che passerà, come un mamba settepassi, che abbandona la tana a stomaco piatto dopo mesi e mesi di letargo, e si cela sotto l’erba alta.
Mentre cammino sotto la pioggia leggera di questa città, vorrei cambiare tutta questa storia. Vorrei tornare indietro di qualche anno solo per parlarti un altro po’, e per dirti che quello che pensa la gente non ha quasi mai valore e poi, poi ti direi che c’era tanto spazio su questa terra, e che c’era ancor più spazio per te, piccola mia; e allora forse ti parlerei delle curve che nonostante tutto sanno tornare sempre, portando uno straccio di novità e di futuro, e ti avvolgerei in una coperta calda del tuo corpo, della tua gioventù e di una storia che era ancora tutta da scrivere, ma nella realtà non sempre i pensieri sanno diventare parole, e molte cose non vengono dette perché la vita non da tempo.
In questo giorno di pioggia, anch’io ti voglio tanto bene, mia dolce, lontanissima amica, anch’io te ne voglio ancora tanto.
Sai anche qui, qualche volta, si è stanchi di elemosinare un po’ d’amore, ma sono solo un po’ più fortunato di te, perché non ho un padre, e non ho mai avuto una pistola.
-Tratto da “Dietro ogni cosa”, 28 Gennaio 2007-
(Luigi Ventriglia)
L’ultima volta nella quale non hai voluto conoscermi
(III versione)
L’ultima volta nella quale non hai voluto conoscermi eravamo in un pullman affollato. Fuori, oltre i vetri sporchi, c’era un giorno di Natale, e c’erano mille luci che tagliavano l’aria ovattata ed un po’ di pioggia che teneva celati gli occhi bassi dei soli che in quel giorno si sentivano un po’ più soli.
Non ti stavo attendendo perché allora, anche i miei sogni si erano fatti un po’ più lontani e così avevo smesso di cercarti dopo tutto quel tempo, ma forse è proprio chi ha smesso di cercare a trovare la verità per primo, almeno una delle tante verità possibili.
Così, senza pensarci troppo su, mentre scendevamo, le nostre spalle si sono toccate e poi gli occhi hanno fatto il resto.
Allora io mi sono imbruttito in una smorfia che forse voleva essere un saluto, e tu, tu non eri più tu, dopo una scrollata di capo e due occhi un po’ socchiusi.
Chi ero?
Come, chi ero?
Vabbè, qualcosa dovevo pur esserlo! L’ho capito perché tu, i sorrisi non li sai proprio nascondere.
Allora ho chiuso gli occhi, e in quell’attimo di nero nella mia mente sono passate tante cose, sapessi quante; piccole e grandi come i sogni, e taglienti e anestetiche come tutta quella realtà che correva e si dava da fare forse solo per non pensare, fuori, oltre quel vetro, sotto tutta quella pioggia indolente, nel blu di quel pomeriggio senza sole.
Allora ho capito che la vita aveva bisogno delle mie scuse, perchè lei non perdona facilmente chi per troppo tempo ha dimenticato di onorarla, trascinandosi a lungo, sulla schiena un sogno troppo grande.
E poi, poi è tornato, in quell’attimo eterno e breve, il lontano giorno di sole e di polvere nel quale ti vidi per la prima volta, e tutta quella mia sete e la tua fonte che restò salata, e poi ancora un altro giorno e allora sono tornati i tuoi occhi in quell’attimo in cui incontrandoti non ti ho salutata.
Quante cose non sapevamo e quante cose non avrebbero mai trovato una voce!
Ma com’ era mai possibile che eravamo ancora due sconosciuti?
Piccola mia, se solo avessi saputo quanti silenzi e quante confusioni in tutto quel tempo avevano portato il tuo nome, e poi , poi quante volte , ad occhi chiusi, ti ero venuto a cercare.
E perché no? Dopo tutto quel tempo quasi quasi te l’avrei detto ed allora ti avrei parlato di tutte le vite che , nel silenzio, avevo vissuto accanto a te, ma quando ho riaperto gli occhi non c’eri più.
Sono sceso e non ti ho cercata, forse perché ero stanco del futuro, ma niente lacrime, credimi niente lacrime. Solo un sorriso per tutti i sogni che non hanno parole, e per tutte le volte in cui un cuore batte solo e lo fa in silenzio, e lo fa per due.
Allora sono sceso.
Cosa vuoi che ti dica, fuori c’era tanta vita, e c’erano tanti altri occhi ad attenderci.
Mi sono un po’ confuso in quel pomeriggio blu e poi ho corso sotto la pioggia che cadeva stanca, ma non era una fuga, era solo che non si ha mai tanto tempo.
Se un giorno vorrai, se un giorno i tuoi pensieri troveranno un po’ di spazio, mi troverai sempre lì, e oltre quel numero troverai un amico e un sorriso, sempre un sorriso leggero, perché sono troppo maturo per gli addii, e ancora non troppo vecchio per smettere di credere nei sogni.
Allora ho corso, tornando uomo fra gli uomini, confondendomi nella pioggia ed in quel vento, ma non era una fuga , era solo che non si ha mai tanto tempo.
-In un giorno schifoso del dicembre 2006-
(Luigi Ventriglia)