Solidarietà

 

Un gatto randagio girava circospetto alla ricerca di cibo. Spelacchiato e scheletrito, pareva confondersi con le asperità delle pietre. Sembrava nero, ma era comunque scuro. Scuro come l' esistenza che doveva aver condotto. Per lui non c’ erano mai state carezze; non cibi raffinati; mai un padrone su cui fare affidamento.

Lo guardavo mentre lui non mi vedeva. Cercavo di non muovermi per non metterlo in allarme.

Povero gattino sperduto. Chissà come sarà stata per lui la vita?

Era solo. Ma probabilmente non se n’era mai accorto: gli sarebbe bastato un pasto garantito al giorno e sarebbe stata la felicità.

Io guardavo l’asprezza del paesaggio, pur nella sua delizia di luci ed ombre, leggere come quelle nuvole invisibili. Era fredda la visuale; inumana; spietata per quell’inevitabilità che ci fa sentire estranei a ciò che è più grande di noi: ero uomo ed ero nulla.

L’unica cosa calda e vitale rimaneva quel povero gatto che, estraneo alle mie sensazioni, si sarebbe accontentato di un animale notturno, perché gli saziasse la fame.

Guardai il lago, con le sue acque nere e pur tremule di scintillii. Nulla sarebbe parso più bello e terrificante: io non ne ero parte. Qualsiasi cosa avrei dato per sentirmi tutt’uno col paesaggio ma lui, inanimato e minerale, non mi voleva. Non sapeva che farsene di tutta la mia superiorità. A lui io non servivo; ero io a sentire il suo bisogno. Avrei voluto parlargli per chiedergli come si fa ad essere indifferenti. Come si può risvegliare tanta emozione e rimanerne estranei, come chi fosse tanto amato e non sapesse che si può ricambiare.

Ma non era lui a soffrire: la sofferenza era tutta mia, di me che percepivo.

Tutto attorno era ancora bagnato: aveva appena smesso di piovere ed il cielo stava aprendosi, ribaltando i contorni del posto.

Forse il gatto era da poco uscito proprio per quello. Se fosse stato così avrebbe passato la notte a digiuno.

Ma davvero è questa la vita?

Davvero ci si deve accontentare di trascorrerla nella battaglia quotidiana per avversare il divenire della materia? Ma allora perché non siamo noi pure pietre? A cosa serve la nostra supposta superiorità? A darci sofferenza?

Eppure quel gattino stava soffrendo più di me. Aveva fame: io non l’avevo mai provata. Forse pareva tanto spelacchiato solo perché era fradicio di pioggia: io non lo ero mai stata.

Cosa avrei potuto fare per lui? Cosa, di quanto il paesaggio non avrebbe mai fatto per me?

Ecco la differenza: stava tutta lì. Io mi sapevo fare gatto; potevo compenetrarlo e capirlo. Io, superiore, potevo comprendere chi mi era inferiore.

Il paesaggio non lo avrebbe mai potuto, né con me, né col gatto: ci stava al di sotto.

Con l’indifferenza veniva premiata l’inferiorità; con il dolore, la superiorità. Ma io ed il gatto, noi sì, avremmo potuto aiutarci. Eravamo vivi e lo sapevamo entrambi.

Era il bisogno a farcelo sapere: a lui del cibo, a me, di uno stato diverso, dove le pietre, le stelle ed il lago si fondessero con me.

Orione scintillava più delle altre stelle. Lui, che col suo nome parlava di alba.

Tra poco sarebbe sorto il sole e tutto si sarebbe modificato, ma solo in apparenza. Sarebbe stata la luce a creare quell’illusione. Quella luce che ora sembrava non volersi concedere, se non in una sua tenue rappresentanza, giusto per ricordarmi che non si deve morire.

Il buio assoluto mi avrebbe dato pace. La speranza di trovarla nella morte. La certezza che un giorno sarebbe stata inevitabilmente mia, ma i luccichii sull’acqua mi privavano anche di quel rifugio, ricordandomi che avrei dovuto rinunciare per sempre a tanta bellezza, che avrei dovuto abbandonare, insieme al mio corpo.

E mentre pensavo, il gattino gironzolava, ormai quasi rassegnato a non trovare più cibo. Ma forse per lui non era una novità, mentre io mi disperavo, rincorrendo pensieri neri che sarebbero stati spazzati via in un baleno se solo avessi avuto fame, freddo e paura.

All’improvviso fece un balzo, forse per acchiappare un uccello notturno, ma fece male i conti e cadde inesorabilmente nell’acqua.

Ne sarebbe uscito - pensai - ai gatti non manca la capacità di nuotare. Ma la sponda doveva essere scivolosa o forse, qualcos’altro glielo impediva e non lo vidi più.

Ero io a mancare nella vista o veramente si stava trovando in difficoltà?

Scesi dall’automobile dove ero rimasta, protetta e distante fino ad allora e corsi al lago. Era là. Arrancava.

Tutta, ce la stava mettendo per risalire, ma non ci sarebbe mai riuscito. C’era uno scosceso e lui non avrebbe mai potuto superarlo.

Io, l’avrei saputo aiutare, ma si sarebbe lasciato prendere? Non si sarebbe rivoltato, graffiandomi e morsicandomi, scambiando il mio aiuto per una ulteriore malasorte? 

Comunque fosse, non potevo abbandonarlo. Avrei rischiato nulla, in confronto al destino, cui stava andando incontro lui.

Mi sdraiai sulla ripida sponda per poter allungare le braccia il più possibile: riuscivo a toccarlo. Sentivo il pelo fradicio in un continuo movimento di sali scendi: cercava di risalire, ma inesorabilmente ricadeva giù. Non sarebbe stato facile. Dovevo riuscire ad afferrarlo per la collottola o per una zampa o qualunque altra parte, su cui poter far presa.

Cercavo ma non mi riusciva.

Dovevo concentrarmi, aspettare il momento del suo tentato risalire ed essere pronta e decisa. Allargai le mani alla stessa distanza, circa trenta centimetri, attesi di sentirlo nella disperata arrampicata e strinsi, avvertendo la presa.

Non importava dove e come, tirai su e lui era attaccato. Si era attaccato furiosamente alle mie mani, anche affondando le unghie nella carne, ma io ne ero soltanto felice. In certi momenti l’adrenalina ci isola dal dolore... Era fuori: dal lago e da ogni pericolo. Salvo, ma come avrebbe reagito?

Non si muoveva e mi guardava: attendeva.

Era nelle mie mani ma non tentava la fuga, né cercava di rivoltarsi: solo mi guardava. Sembrava dovesse decidere se considerarmi un ulteriore pericolo o un miracolo.

Non era un gatto randagio. Non avrebbe reagito così.

Doveva esser stato abbandonato: povero gattino. Stava ancora peggio di come mi ero immaginata. Avere avuto una casa, un padrone, una vita e perderla... Ancora peggio che non averlo mai provato.

Forse era per quello che era caduto: lui non sapeva cacciare. Ora era lì, in balia mia ed avrebbe forse preferito morire piuttosto che perdere quelle mani che gli stavano dando speranza.

Il paesaggio era sempre indifferente, soggetto a quel sole che cominciava ad illuminarlo.

Migliorai la presa e cominciai ad accarezzargli il muso; gli parlai, grattandogli un po’ la testa. Lui capì. Gli occhi non erano più interrogativi ma cominciavano a socchiudersi, mentre dalla gola nasceva un debole tremore: stava facendo le fusa.

C’eravamo compresi ed io non l’avrei più lasciato. Non avrei mai tradito la fiducia di quel momento.

Me lo portai in macchina e gli diedi soccorso. Me lo sarei portato a casa e sarebbe diventato il mio gatto; l’avevo salvato ed ormai ci saremmo voluti solo bene, poi pensai: “Che forse sia questa la solidarietà?”

 

(Giovanna Tarantola)

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