Il funerale
Nell’aia il gallo non aveva ancora cantato, malgrado il buio si fosse già spogliato alla calura del sole del primo mattino, già su da qualche interminabile minuto.
Quando il gallo non diceva la sua per primo, era comune tra noi paesani pensare alla sventura che certa ed impeccabile sarebbe venuta prima di sera.
Anche quel giorno il detto non fu smentito, perché nel mentre che ogni uomo si domandava cosa sarebbe capitato ed ogni donna pregava chè si trattasse solo di piccola cosa, veloce come veloce può esserlo solo il parlare, correva di casa in casa l’annuncio della morte del figlio di Enzo, che era giovane tanto da non aver ancora visto un filo di barba tagliargli il viso.
Enzo era detto “il comunista” perché ogni volta incontrasse il prete attaccava col suo passato di combattente in questo o quel conflitto, e diceva che era lì a raccontarlo non era tanto grazie a Dio, quanto alla sua abilità e forza.
Era anche l’unico al paese iscritto al partito, e questo piaceva alle donne giovani, che si facevano incantare dai suoi racconti, e scandalizzava le vecchie, che al solo vederlo da lontano cambiavano via e cingevano le braccia, a tenere stretti quei pochi grammi d’anima ormai chini a prossima beata sorte.
La morte del figliolo di Enzo fu per tutti un evento terribile, tanto pensavano a lui tutti come l’uomo che, bene o male, era riuscito a tirare avanti quel giovanotto da solo, dopo che la madre aveva ceduto la vita ai dolori del parto.
Mio padre appena saputo il fatto si vestì pesante e scese in paese per domandare del funerale, dato che ricordava solide le parole dell’amico contro il prete, e rammentava, discreto e cristiano, il reciproco rancore.
Quando tornò su era serio in volto e non disse nulla, andò al catino a cominciare a lavarsi il petto e le braccia in modo che mia madre capisse subito che il funerale ci sarebbe stato di li a poco e spedisse anche me al catino, mentre lei si fasciava dell’abito nero,lo stesso che aveva indossato qualche anno prima, alla morte della moglie del comunista.
Giunti al paese, fu per me insolito vedere Enzo in chiesa piangere sulla bara, che aveva voluta chiusa, e mio padre che, per quanto non lo desse a vedere, era anche lui confuso e se ne stava fuori, e serio come in castigo.
In chiesa ci si divideva tra uomini e donne, e mentre i primi se ne stavano zitti, le donne parlavano sommesse fra loro, cosa che a mio padre non andò giù, tanto da spingerlo a distaccarsi dal gruppo per recarsi a dare un grosso ceffone sulla nuca di Donna Elena, un’anziana signora che per poco non ci restò, per il dolore e la vergogna della sberla.
Come al solito non giustificò quel gesto, ma l’approvazione di tutti gli altri uomini mi lasciava capire che quel ceffone le ci stava bene.
Io non avevo mai visto mio padre picchiare una donna e quando chiesi ne ricevetti che Donna Elena andava dicendo che quel lutto Enzo un po’ se l’era meritato, e ci mancava poco che lui stesso l’avesse dato in pasto a qualche Dio politico.
Quando Enzo uscì dalla chiesa non piangeva più, e toccò a noi la visita al feretro, ad uno ad uno, a toccare la bara prima della sepoltura.
Mio padre che era entrato con me, mi guardò e ancora una volta non disse nulla, ma si vedeva che era fiero, perché mi ero comportato da uomo, e non avevo pianto neppure una lacrima.(Simone Ricciatti)