La Venezia del futuro - 2050
Già arrivando in prossimità di Piazzale Roma sentiva dentro una certa inquietudine, rinforzata dal fatto che il bus navetta su cui era salito all’aeroporto viaggiava completamente immerso in una coltre di nebbia impenetrabile, sospeso fra cielo e mare in un limbo che per fortuna era rettilineo ed asfaltato, una lingua di terra percorribile in mezzo alla laguna e battezzata Ponte della Libertà.
Ma la nebbia a Venezia è d’obbligo, soprattutto in autunno inoltrato.
Gli altri passeggeri non sembravano invece far caso alla situazione esterna, pareva riponessero una fiducia incondizionata nell’autista e nei mille aggeggi tecnologici che lo aiutavano a mantenere la giusta direzione e gli segnalavano eventuali ostacoli.
Non parlate al conducente. Anche perché è all’interno di una cabina isolata con i vetri blindati, secondo i moderni standard internazionali di sicurezza.
Qualche turista cinese fotografava il nulla al di la del finestrino, una suadente voce elettronica di donna poliglotta dava insulsi suggerimenti ed annunciava l’imminente arrivo al capolinea.
<<Chissà se gli abitanti di campo Santa Margherita litigano ancora rabbiosamente con i giovani che non li lasciano dormire>> si era chiesto mettendo il primo piede di nuovo sulla terraferma, quasi come se un ricordo nitido della giovinezza lo aiutasse ad orientarsi meglio. Gli autobus avevano cambiato sistema di parcheggio sul piazzale, ora erano disposti a ferro di cavallo per lasciare posto, al centro, alla scalinata che porta alla stazione della metropolitana, quella che avrebbe preso per tornare indietro. All’andata aveva preferito la superficie, contando di intravedere qualcosa, almeno l’inconfondibile sagoma grigia della città da lontano, la mistica skyline composta di campanili e cupole di chiese che la circonda di misteriosa sacralità.
Venezia è un segreto che si mantiene tale perché non può essere svelato, non può essere raccontato da uomo ad altro uomo né da orecchio di padre ad orecchio di figlio, è un segreto che viene rivelato solo a chi ci nasce dalle voci flebili dei mattoni che la costituiscono, dal mare e dai pali piantati saldamente nel fango.
Eppure non gli mancava Venezia, non ne aveva mai nostalgia, certo qualche volta gli capitava di pensarci o di rivedere mentalmente facce amiche, di sorridere ricordando modi di dire e personaggi folkloristici. Ci era nato e ci aveva vissuto a lungo ma poi ad un certo punto qualcosa si era rotto, difficile spiegare cosa. Infatti non aveva spiegato niente a nessuno, semplicemente aveva fatto i bagagli ed aveva comunicato la sua decisione <<vado via, ho bisogno di cambiare aria>>. Nemmeno si era preoccupato di stabilire una meta, voleva iniziare un nuovo ciclo libero da punti prefissati come gli orari e gli approdi dei vaporetti. Era partito e non era più tornato.
Quando tutti erano scesi, l’autobus aveva richiuso le porte e si era posizionato in coda ad altri due, quello di testa aveva il motore acceso e il vapore acqueo –innocuo gas di scarico dei veicoli ad idrogeno- saliva lentamente al cielo attraversando a fatica il denso strato di nebbia, alimentandolo, provocando turbolenze circolari che sembravano sconquassarne la perfetta immobilità. Alzando il colletto della giacca si era incamminato, il cervello nel frattempo tirava fuori dall’archivio la pianta della città e gliela proiettava nella memoria chiara e luminosa come sul display di un gps, come non si fosse mai mosso di lì. Erano bastati pochi passi, l’eco, il silenzio ovattato e le pareti scrostate perché Venezia gli si ripresentasse davanti con il suo solito piglio arrogante, baldanzoso, tipico di chi vive di rendita immerso in ricchezze incalcolabili e si crogiola, annullando qualsiasi idea di cambiamento o di evoluzione dello stato di fatto. Venezia l’immortale, nello stesso senso della mummia. Un automa addetto alla raccolta degli escrementi di origine animale gli era passato davanti sibilando, intento al suo compito igienico.
Aveva notato quasi subito che i negozi di maschere in cartapesta si erano moltiplicati a dismisura, come quelli di oggetti in vetro di Murano e di chincaglierie orientaleggianti, poi si era ricordato di aver letto da qualche parte di quella legge speciale che aveva limitato le dimensioni delle superfici commerciali, non più di venticinque metri quadrati ciascuna o qualcosa del genere, esclusi naturalmente i ristoranti, gli alberghi e gli esercizi di chi era disposto a sborsare cifre esorbitanti per ottenere l’autorizzazione ad usufruire di più spazio. Parte del consistente aumento degli introiti per il Comune era stato sicuramente speso per risistemare l’illuminazione pubblica, avveniristici lampioncini in stile tratteggiavano le forme degli edifici con segni luminosi, pennellate d’argento che riuscivano ad impreziosire ulteriormente le architetture e a creare ipnotici giochi di riflessi specchiandosi sulla superficie increspata dell’acqua nei canali.
A quell’ora della notte l’unico posto che poteva essere aperto era la discoteca vicino alla stazione dei treni, quella che aveva cambiato centinaia di gestioni riuscendo inspiegabilmente a mantenere sempre lo stesso livello di squallore e lo stesso numero di risse mensili, un locale infimo frequentato da turisti ubriachi e con l’ingresso presidiato da un paio di giganti abbronzantissimi sempre pronti a menar le mani. Night life in Venice. Aveva sete, ma il solo pensare di varcare quella soglia –ammesso il locale esistesse ancora- gli dava i brividi, meglio abbeverarsi ad una fontanella zampillante ed informale.
Immaginava che sarebbe finita in una lunghissima camminata solitaria, avrebbe anche potuto comprare il biglietto aereo per la tratta senza scalo a Venezia, avrebbe potuto avvisare qualche vecchio amico del suo arrivo, avrebbe potuto, ma non gli era piaciuta l’idea, preferiva arrivare in città e lasciare tutto al caso, forse preferiva addirittura non incontrare nessuno, nemmeno per caso. Ancora non sapeva spiegarsi il perché di quella improvvisa decisione, di quella strana forza che lo aveva indotto a decidere di tornare, si trattava di poche ore, neanche si poteva parlare di ritorno, ma il fatto saliente era che ora si trovava a Venezia, spaesato come un pesce fuor d’acqua.
Quante cose erano cambiate dentro di lui in quegli anni di lontananza, pensieri, azioni, modi di fare, di approcciare gli altri, relazioni con le donne che erano passate per la sua vita fino a quel momento, tutto in continuo movimento, in trasformazione perenne, la città in cui era nato invece non era cambiata affatto, lo sentiva persino dall’odore nell’aria. Questa incongruenza tra dentro e fuori lo metteva tremendamente a disagio, come un turista solitario che si perde in un luogo sconosciuto. Un turista. Ecco come si sentiva veramente, un estraneo, un foresto.
Il ponte dell’Accademia. Bello.
Il ponte di Rialto. Bello.
Passando davanti al Conservatorio gli era sembrato di sentire dei rumori provenire dal cortile antistante, lo stesso che migliaia di volte era stato teatro di sfide a calcetto all’ultimo sangue, soprattutto in notturna, passatempo preferito degli anni belli della sua adolescenza, quelli pieni di inconsapevolezza e di spritz. Si era affacciato, ma non c’era nessuno, solo la nebbia, <<probabilmente qualche gatto randagio>>.
Ormai era deciso a portare in fondo la sua scampagnata di turista con l’immancabile visita alla Piazza più bella del mondo, orgoglio degli abitanti, del Sindaco e patrimonio dell’umanità intera, poche migliaia di metri quadrati ad altissima concentrazione di arte e storia, un biglietto da visita che nessun altro può vantare. Perché i veneziani moderni se ne vantano come fosse opera delle loro stesse mani. Imboccata una calletta secondaria soffocata di insegne al neon spente, si era reso conto di stare a nutrire un fastidio crescente per la situazione, forse avrebbe fatto meglio a tornare in aeroporto a cercare di dormire un po’ prima del check-in. Ma proprio in quel momento l’occhio si era fissato sull’unica insegna ancora accesa, orribile, si distingueva anche per l’assoluta mancanza di gusto nella scelta dei colori e per lo stile della grafica, essenziale ed insignificante, magari celava un’altra di quelle osterie riconvertite a night club.
La curiosità l’aveva convinto ad avvicinarsi.
Ad intermittenza il neon componeva la scritta “La Venezia del futuro”, il civico era il 2050. Sulla porta con il vetro oscurato un cartello adesivo nelle principali lingue diceva “Chiaroveggenza, cartomanzia e lettura della mano”.
Aveva provato a spingere la maniglia, la porta era aperta. Qualche istante di esitazione, poi un campanellino aveva annunciato la sua presenza quando se l’era richiusa dietro le spalle.
<<Buonasera>>, una voce bassa arrivava dal fondo della stanza.
<<Buonasera>>. Non sapeva cos’altro dire, come non sapeva perché avesse avuto l’istinto di entrare in quel posto che puzzava di umidità, di chiuso e di incenso. <<Io non so neanche perché sono qui>> erano le uniche parole che era riuscito a biascicare.
<<Non è importante. Non sono io l’indovina?>> La battuta aveva sciolto l’imbarazzo.
<<Già, così è scritto sul cartello>>. Nonostante si sforzasse non gli riusciva di mettere a fuoco i lineamenti della donna che gli parlava, lei rimaneva seduta al tavolo in penombra e non pareva intenzionata ad alzarsi.
<<Ma prego, si accomodi.
Lei non è di queste parti, vero? Non ha l’accento veneto>>.
Ormai che c’era aveva deciso di sedersi e vedere come sarebbe andata a finire. <<Sono nato a Venezia e ci ho vissuto fino ai ventotto anni, ma è da molto che risiedo all’estero>>.
<<Si sente>>.
Adesso che si era seduto la vedeva bene, era una ragazza giovane, forse trentenne.
<<Allora, cosa posso fare per lei?>>
<<Veramente non lo so, sono entrato per curiosità, passeggiavo e ho visto l’insegna accesa.>>
<<Quindi non le interessa sapere il suo futuro>>.
<<No, non sono il tipo.
Anzi, mi scuso se le ho fatto perdere tempo, ora me ne vado>>, già si stava rialzando.
<<Ma no, perché?
Rimanga, e diamoci del tu>>.
<<Va bene, se per te non è un problema>>.
<<Al contrario.
Però vedo che in fondo c’è qualcosa che ti turba, non sei sereno>>.
<<Si vede così tanto?
Forse non dovevo tornare>>.
<<Tornare dove? A Venezia?>>
<<Si, a Venezia.
Sono andato un po’ in giro stasera, è come camminare dentro un sarcofago galleggiante>>. Lei si era messa a ridere. <<Perché ridi?>>
<<Perché hai ragione, è un’immagine azzeccata>>.
<<Anche tu non hai l’accento veneto. Di dove sei?>>
<<Abruzzese>>.
<<E come sei finita qui? A fare questo lavoro?>>
<<E’ una storia lunga>>.
<<Mi accontento di un riassunto>>.
<<Laureata in astrofisica con il massimo dei voti a ventitre anni. Breve periodo di dottorato di ricerca, poi sono finiti i fondi e l’Università ci ha lasciati in mezzo alla strada. Disoccupata per due anni, sono venuta a Venezia per un periodo a casa di un’amica e ho cominciato per scherzo.
Sai come funziona, ti intendi di astrofisica e la gente ti da credito anche se dici di saper predire il futuro.
Così mi guadagno da vivere in attesa di tempi migliori, ma i tempi migliori non arrivano.
Fine della storia>>.
<<E’ una bella storia.
Posso farti una domanda personale?>>
<<Certo che puoi, ormai siamo in confidenza>>.
<<Ma se non vedi il futuro, come fai ad avere clienti?
Lavori solo con i turisti che vengono a Venezia una volta nella vita, vero?>>
<<Ti sbagli, sono praticamente tutti veneziani e vengono anche due, tre volte al mese.
È che a Venezia è facile, per questo rimango qui. La gente entra e mi chiede di predire il futuro ma lo vuole rassomigliante il più possibile al glorioso passato, e io li accontento. Ogni tanto leggo qualche libro sulle tradizioni locali, parlo con gli anziani, e il gioco è fatto>>.
<<Senti, ti va se rimango a parlare con te ancora un po’? Questa conversazione mi interessa molto>>.
<<Sicuro che mi va.
Quanto tempo hai?>>
<<Il mio aereo parte fra sei ore>>.
<<Allora faccio bollire l’acqua per il the>>.
(Lorenzo Pezzato)