Il vagabondo
Ad una delle tarde ore dell’estate, quando il caldo si copriva del velo umido e freddo dei vapori del canale, un uomo osservava dall’angolo di una calle sullo stretto mare un ingresso dalle fauci aperte nella notte. Da una pergola con lanterne di colori scrostati uscivano sbiaditi avanzi di luce che andavano a morire nel buio chiazzato dei tavoli. Restava in piedi a lungo, immobile più di un manichino, le mani penzoloni, alto, di una curva lieve le spalle, appeso a se stesso. Le sue scarpe senza colore parlavano di lunghi percorsi, di poche e scomode pause, di poco amore in carne ed ossa, perché questo amore offriva riparo e tregua, sosta, ed esse erano randagie.
Le pietre della fondamenta su cui stava appoggiato, lise dai secoli, erano ancora capaci di portare il peso dei passi di innumerevoli generazioni, passi di scarpette aristocratiche, di robusti polpacci, di vario mondo, anche quelli dei vagabondi come lui. E di fatto la fondamenta pareva non stizzirsi per le sue suole di volgare para consumata. Sebbene dovesse preferire, come era chiaro, tocchi di lucide vernici e carezze di preziose sottane colorate o di cappe di seta profumata, reggeva su di sé anche il lezzo della sua povertà, dandogli l’impressione di essere un ospite bene accetto, lasciandosi montare insomma senza restrizioni anche da lui, sempre a disposizione di chiunque, come mostrava l’odore appestante del suo desiderio incontenibile, un odore che a lui piaceva particolarmente, perché lo voleva considerare un richiamo soprattutto per lui, che aveva con quelle geometrie i suoi amorazzi poco puliti.
Il vocio, che esalava dal locale assieme all’alcol non più fresco, gli giungeva attutito e lento. Ogni tanto una risata opaca e presto svanita, un battimani dalla sonorità smarrita, un irriconoscibile ritornello gridato ad intervalli regolari da bocche impudiche, sempre il medesimo per tutta la nottata. Quando lo sentiva, lo ascoltava come fosse l’eco di suoni del più lontano passato che si avvicinavano a lui. Chissà quante bocche simili a quelle avevano inondato nei secoli trascorsi le calli con uguali voci di nessuno, che nessuno avrebbe mai più udito. Talvolta, anzi spesso, quando camminava adagio in qualche calle bianca dalla solitudine più antica, gli piaceva mettere in contatto i suoi passi con i passi del passato, il futuro non gli interessava gran che. Il domani poteva anche essere un inganno, poteva anche non esserci, sparire prima di accadere. Pensava ad una piena catastrofica della laguna, ad una ribellione delle isole sommerse e al crollo devastante dei palazzi nei canali di schiuma serpeggiante. Il passato invece, anche se non c’era più, c’era stato un tempo ed era per questo che lui poteva sentirsi sospirare negli orecchi storie di strani amori inghiottiti dalle nebbie e sentirne il lamento penetrare sottile nel suo cuore.
Gli ultimi avventori del baccaro stentavano a lasciare la riunione e quando l’oste chiudeva uno scuro o appoggiava una sedia sull’altra, ordinavano presto dell’altro vino scuro e biondo per prolungare la loro degenza in quel ricovero per anonimi, non dissimili dalle pallide macchie di lampade dai contorni informi ed accasciati, cui solo il passaggio di qualche braccio bianco dava un po’ di movimento. Poi l’orecchio dell’uomo percepiva il ripetersi di addii come un’eco di capricci indirizzati da un roco gorgoglio di sottofondo a sparire nello scuro cassettone dei sogni. Presto rimaneva l’andirivieni di qualche ombra chiara che sistemava il locale per la notte più fonda finendo di aggiustare i tavoli sotto la pergola, accatastando gli ultimi. Allora si avvicinava con passo insicuro e, prima che ramazzassero il pavimento della sala e della calle antistante, raccoglieva i mozziconi sparsi a terra tra l’immondizia. Li conservava in una tasca piena di resti di cose inservibili come lui: un pezzo di spago salvato dalla pattumiera, qualche chiodo spuntato, una vecchia moneta fuori corso, buona a schiudere mondi scomparsi, ma non ad aprirne di nuovi. Poi camminava titubante verso il banco nei pressi del secchiaio e lì vuotava in fretta bicchieri e tazze di quanto stava nel loro fondo, elisir, liquori, vino, caffè, i mille gusti di una felicità promessa che, per essere solo assaggiata in gocce e non consumata, rimaneva desiderabile. Nessuno lo salutava, nessuno gli rivolgeva la parola e neppure lo guardava, era come se non fosse corporeo e lui stesso si riteneva fatto di nebbia, sì, perché era capace di dormire come lei all'aperto, di stare sparso come lei sul tavolaccio traballante, esposto senza riparo alla lingua fredda della notte. Ma lui amava stare abbandonato tra le braccia della calle che diventava così la donna da cui tornava sempre.
Quando le porte si chiudevano, si stendeva sul tavolo sotto la pergola e si copriva di giornali. Lo stormire del canale lo invitava ad assopirsi per dimenticare l’inganno della veglia e per sognare le storie più vere del suo viaggio. E vagava allora addentrandosi nelle prospettive più celate di edifici sprangati. Come quando era giunto una notte nei pressi di un palazzo bianco nell’oscurità di tetre colonne ed aveva oltrepassato la cancellata chiusa. Un’immobile dama velata, tale gli era parsa la figura, lo aveva accolto alle spalle, gli occhi e la bocca nascosti, senza volto, il passo frenato negli abiti di pietra. Com’erano belle quelle labbra invisibili e quegli occhi cancellati con il loro sorriso che egli intuiva acuto e spiritoso, appena mosso, tutto per lui nel buio fondo di quell’ora morta, rischiarata dai cristalli di una luna penetrante negli androni come la sbavatura di una marea inafferrabile e senza respiro. Era salito su scale bianche osservato da sotto quel velo muliebre, così credeva, ed era stato aggredito dal fragore improvviso di viole e violini scoppiati in un’aria già fatta memoria dimenticata nel coccio disperso della sua vita. Le picchiate degli archi lo avevano assalito fitte ed insistenti alla nuca dandogli un piacere capace di intridere tutta la sua struttura, come percepiva dalla dolce languidezza che lo pervadeva dal cuore alle ginocchia rendendolo prossimo a cadere sotto quei colpi. Penetrato dai suoni e sospirando di desiderio si era allora rivolto a quella figura ferma e bianca che lo attendeva, giù, dal sorriso misterioso, di fronte a quella serenata dedicata ad entrambi, come gli sembrò che essa sapesse da lungo e senza meraviglia. Una serenata inventata per le ombre delle pietre, quindi anche per lui che le abitava. O come quando era stato ai piedi di un’alta scala a chiocciola dai rigidi merletti, chiusa agli sguardi di tutti, ed aveva cantato la sua canzone ad una donna che non si era affacciata, nascosta nei fori più bui di quel ricamo, da cui spiava i suoi occhi scuri persi nel canto e nella speranza. E la sua canzone muta era volata sempre più su, su, danzando fino all’ultimo giro di colonne, dove si era fermata inchinandosi bassa davanti a lei, impalpabile come i vuoti dei suoi occhi, ma presente in essi come lui sentiva nel suo cuore.
Di tanto in tanto la mano della notte lo destava appena senza interrompere il suo cammino fra i palazzi silenziosi della città. Gli ricordava di non mettere i piedi in fallo, preso com’era dal suo vagabondare rapido e leggero, la fronte sempre volta in alto a guardare balenanti vetri ed aerei balconi stagliati contro il nero di una volta a tutto sesto. L’alba lo raggiungeva senza invadenza con la sua luce fredda ed egli sapeva che poteva restare ancora un po’ sul tavolaccio ad occhi socchiusi a riposarsi dalla sua corsa notturna per riprendere il passo meno libero e più pesante consono al giorno. D’estate poteva guadagnare i pochi soldi che il mondo ricco decideva di dargli e gli avanzava qualche lira che lui conservava per pagarsi il letto maleodorante destinato ai relitti come lui nell’umido inverno veneziano che lo attendeva e nel quale doveva rinunciare alle dita nude della notte e al suo braccio d’ombra.
Quando il cielo prendeva i colori dell’aurora, si alzava a fatica e restava seduto dolorante e a capo chino per lunghi minuti prima di mettersi in cammino per calli che aveva posseduto eccitate durante le sue passeggiate solitarie. Nel mattino gli nascondevano il loro desiderio sotto un’indifferenza che si dimostrava falsa non appena restavano sole con lui, anche per pochi attimi. Allora la voglia di sentire la pietra sotto di sé lo assaliva travolgente ed un amore disperato per la vita lo attirava a terra nella posa di un amante accettato, così che spesso si abbandonava alle sue ginocchia assecondando il loro cedimento, tanto, ad un vagabondo come lui si addicevano le spazialità più inconsuete negli angoli, vicino al calpestio affaccendato di chi lo considerava folle. Da quella posizione prona gli altri gli apparivano in equilibrio precario e pronti a cadere non in basso, ma in aria, senza peso, mentre lui si emozionava, unico ospite, in un giro della giostra rotante offertogli dalla sua diversa prospettiva. Le calli lo portavano a quello che lui chiamava lavoro, spesso all’Arsenale, dove faceva la pulizia del piazzalino, talora a scaricare cassette di pesce o a mettere le tovaglie sui tavolini di qualche osteria cadente. E poi vagava, vagava senza posa, nascondendosi negli antri più desolati dove non passava nessuno e soprattutto non entravano che per errore turisti sperduti a ritagliare qualche scorcio, di cui faceva parte anche lui, calcinaccio in bilico su vecchie acque che ne attendevano il crollo nel loro mondo rovesciato. Tanto si stancava nel suo cammino diurno, che gli sembrava di avere le gambe pesanti e rigide, così che spesso non riusciva a distinguersi del tutto dalla pietra su cui poggiava. Si sedeva un po’ su un ponte, cullato da un’acqua languida, instancabile come il tempo fuggente.
Non era sempre stato solo. Da giovane era stato in una casa governata da una donna, dove abitavano altre donne, uomini e anche bambini della sua età. Ma solo quando la notte vagava senza peso, scomparendo qui e là nell’abbraccio di qualche gobbo cornicione, solo allora era a casa sua, non si sentiva un estraneo, era amato, le ombre dei palazzi erano sue e alla loro uscita dall’oscurità gli offrivano il loro sembiante più vero, non come di giorno, quando se ne stavano rintanate dentro i muri o sgusciavano fuori coperte con cappelli e manti sempre diversi nel tentativo di non farsi riconoscere dai passanti. Nella pallida luce notturna restavano invece esposte per lunghe ore in una posizione immutata e non rientravano che all’alba per riprendere la loro lenta danza, quando anche lui rientrava nel suo corpo abbandonato sul suo tavolaccio di vagabondo.
Voleva viaggiare anche lui fuori da Venezia, voleva vedere il vasto mondo, voleva continuare a vagare per sempre su questa Terra. Ogni tanto si ricordava che doveva risparmiare per questo, almeno per il suo viaggio nell’isola vicina, forse l’unico che sapeva di poter fare senz’altro. Avrebbe desiderato avvenisse in gondola, la barca più elegante del mondo, la barca più elegante nel cosmo intero, la barca, l’unica adatta al suo passo incerto, zoppo come il proprio, ma capace anche di pezzi di bravura, di scivolamenti sull’acqua come una serpe marina, di giochi imprevedibili con le macchie di luce dei tramonti più blu. Glielo avrebbero pagato, purtroppo, altri, in qualche mezzo più a buon mercato, non così bello ed estasiante. E così, quando vedeva la gondola montare nera il mare e leggera, viveva quel viaggio in un sogno dove l’acqua saliva alta da tutte le parti, verde, dolcemente, sempre di più.
(Rita Mascialino)