Il tramonto di Nagayama
Prima dell'alba il cielo si capovolse. Orione scintillava nell'oscurità, in mezzo alla pietraia, specchiandosi nell'acqua di un piccolo lago senza contorni. Poche stelle palpitavano nel cielo buio, liberate di tanto in tanto da nuvole invisibili. Il signor Shinichi Nagayama esile e nudo, le mani scarne poggiate sulle cosce, i talloni ruvidi che premevano sulle natiche era immobile come l’oscurità che lo circondava. Pronunciò a labbra socchiuse, mentre il vento freddo del mattino li solidificava a pochi millimetri dal suo viso, versi di haiku che aveva abbandonato da tempo. L’improvviso leggero incresparsi dell’acqua li aveva rievocati.
…colgo i petali di un insolito fiore.
Un fiore prezioso gli era quasi sfuggito dalle mani in un tempo remoto che ora lui ricordava come il suo fiore delicato dal nome dolce ed esotico scomposto davanti ai suoi occhi increduli.
Sola, nel suo morbido e luminoso abito nero Leopoldina lo guardava appoggiata alla balaustra del balcone dell’ampia sala da cocktail, reggeva con delicatezza il suo flute colmo di champagne e non ne aveva bevuto un sorso. Shinichi aveva pronunciato il suo nome senza difficoltà appena l’aveva incontrata qualche ora prima e lei aveva sussurrato il suo. Ora la cerimonia in onore del maestro Nagayama era finalmente terminata, i relatori e gli invitati avevano cominciato a scemare in giro per la sala e lui non era più esattamente il fulcro della serata. Pochissimi passi lo separavano da lei; si mosse esultando all’idea di colmare finalmente la distanza quando un suono al limite dell’udibilità annunciò il crollo dell’universo. Fu più esattamente una vibrazione che un suono. Qualcosa che avrebbe potuto o dovuto annunciare niente di più che la caduta di una suppellettile. Il flute rimase sospeso nell’aria qualche istante più a lungo di quanto la fisica avrebbe potuto giustificare; la sua superficie curva rimandò un breve riflesso che incise la retina di Shinichi, l’intero balcone insieme a Leopoldina rovinarono sul vasto prato sottostante. Nel fumoso silenzio che seguì, Leopoldina e le macerie apparivano come misteriose figure astratte. Shinichi s’inerpicò sui resti di quello che era stato un elegante balconcino liberty e raggiunta la giovane donna parzialmente sepolta, si chinò su di lei. Lo smoking e i lucidi corti capelli neri di Shinichi si erano ricoperti di una sottile polvere bianca che ricadde leggera sul viso di Leopoldina trasformandosi in piccoli vortici a contatto con il breve respiro spezzato di lei. Lo stava ancora guardando e il suo sguardo non si staccò dagli occhi di lui.
Quarantacinque anni dopo il signor Nagayama raccolse tra le sue mani l’ultima bianca e fragile unghia di Leopoldina colpita da una definitiva misteriosa patologia tra le numerose che l’avevano afflitta negli anni dopo il risveglio nel suo corpo dilaniato. Avevano atteso che l’incongruo e disperato desiderio di vivere si dissolvesse con loro. Avevano atteso compiendo ogni giorno il rituale magico del respirare e guardarsi. Regolò con competenza il flusso dell’antidolorifico nella flebo, sedette accanto a lei per l’ultima volta e attese.
La notte aveva raggiunto il culmine dell’oscurità, l’alba si stava avvicinando. Il signor Nagayama lasciò l’ospedale illuminato a giorno e la stanza dove ora mani più solide delle sue avvolgevano in lembi bianchi l’estrema essenza di lei. Si diresse lentamente nel buio verso la pietraia Okabashi e lì giunto, davanti al minuscolo lago oscuro, si spogliò lasciando cadere con dolcezza gli abiti che rotolavano sfiorando le pietre bianche e aguzze come accarezzandole. Il freddo lambiva la pelle stanca di Shinichi senza mutarne la superficie logora, il membro giaceva inerte tra le cosce. Le labbra si mossero senza apparentemente produrre alcun suono mentre la costellazione di Orione stava tramontando. L’uomo chiuse gli occhi e svanì con lei.
(Gilda Liberatore)