Lobelia Cardinalis

Vacanze veneziane

 

Quando il ricordo ritorna improvviso

e mi stupiscono i profumi e i colori

della mia innocenza.

 
(Lettura lenta)

 

Da piccola andavo in vacanza a Venezia-Lido, in settembre, per le biennali. Eravamo ospitati in una casa liberty spettacolare, in via Sandro Gallo. Mia mamma faceva i lavori di casa e io ero la putina, con la governante Olimpia che aveva i baffi e stavo a giocare in giardino, da sola con i gatti, sotto il pergolato di uva nera e il giardino dava sulla laguna e c'erano i fichi e le dalie, il glicine: ma la mia mamma faceva i lavori di casa e mi portavano alla sera a vedere gli attori che andavano alle prime e le signore in abito lungo e gli uomini in smoking e mia mamy lavorava, e mio papi veniva alla domenica: camicia bianca, rasato e profumato, lui che era operaio.
Ricordo il salottino che dava sulla laguna con il balcone a filo d'acqua, le gondole a portata di mano, l'hotel Excelsior con i cantanti famosi con i macchinoni.

Al mattino l'ingegnere mi portava al mare, al lido dell' Excelsior: lo credevano mio nonno, era il padrone dei miei ma voleva bene alla putina perché non aveva figli. E io pranzavo a tavola con loro e mia mamy ci serviva.

La mia famiglia era poverissima e io vivevo come una principessa ma io allora non capivo che mia mamy serviva, era normale, e mangiava con Olimpia in cucina. Olimpia era forte: mi diceva che la putina è fina e mi raccomandava di sposare bene.

Ricordo il profumo delle stole di visone e i vestiti pesantissimi di paillettes della signora Gemma, la moglie dell'ingegnere, mi spruzzava di Chanel 5 quando andavo a spiarla finchè si truccava: tanta cipria e si faceva la riga nera agli occhi con il fiammifero.

Mangiavo spesso riso e sedano.

Quella domenica si era portato la canna da pesca, mio papà, stava seduto sui gradini che scendevano in laguna io giocavo in giardino e mi sedevo con lui, bisognava fare silenzio che i pesci si spaventavano, ma passavano i motoscafi... poi ha abboccato un pesciolino, quando l'ho visto che sanguinava dal gancio dell'amo che gli perforava la branchia ho pianto, così mio papà ha rinunciato al suo piccolo trofeo e l'ha ributtato in mare, era ormai morto così ferito ma io non lo sapevo: papà diceva che guariva con l'acqua salata.
Non c'erano coetanei intorno a me, solo alla spiaggia dell'Excelsior incontravo due gemelli, maschio e femmina con la baby sitter vestita da infermiera, perchè loro erano gravemente ritardati, figli di una famosa distilleria, la loro mamy prendeva il sole distante, tra le cabine a righe bianco azzurre, ben distanziate e tutto sembrava deserto e giocavo con loro e la sabbia, facevo i castelli e loro li distavano facevo la pista, a questo giocavamo bene, vincevo sempre io con la pallina in pista ho sfiorato la ricchezza in assoluta povertà.

Olimpia stendeva i panni luminosi del sole del “dopodesinare”. Sembrava un gazebo. Quando tutti dormivano e le persiane di legno a battente erano socchiuse e i grilli mi raccontavano tutto di loro: Olimpia stendeva e l'aiutavo. Dalla lavanderia nel piano interrato, salivamo una scala di pietra consumata e scivolosa con la “brenta”. Sul retro della casa c'era il prato con i fili stesi per stendere e il salice piangente. Mi nascondevo tra i teli pesanti di lino bagnato e profumato di faticoso pulito, ottenuto da Olimpia senza lavatrice. Mi cercava Olimpia tra le quinte delle lenzuola e scherzavamo sottovoce. Spesso apriva bocca per dirmi il suo parere sui signori. Ma non capivo il senso. Ero solo d’accordo sul fatto che, evidentemente, alla Giulietta i bambini non piacevano. Cercava di farmi capire che era meglio studiare che stirare, e aveva ragione. Mi consigliava un matrimonio fatto bene e scuotendo il capo si contraddiceva, infatti si sposavano tra di loro. Mi resta comunque il dubbio che scuotere si scriva con la “q” e contraddiceva abbia solo una “d”. Ma non ho dubbi: si sposano tra di loro. Non mi pareva strano che le persone intorno fossero divise in due categorie, quelle che sono servite e quelle che servono.

Stavo tranquillamente in bilico.

Mi pareva strano che ci fosse una sottocategoria: un’ulteriore opzione, quelli che amano i bambini e quelli che non li sopportano. L’Ingegnere e la Gemma mi amavano, con pudore e rispetto (leggi distanza) della mia casta di appartenenza: niente affettuosità. Premure sì, molte, “ocio, putina” non era riferito solo ai preziosi vetri soffiati ma anche alla mia incolumità. E ricordo, il rituale del “desinare”. Preparato come i giorni di grande ricorrenza a casa con i miei, al Lido era uso quotidiano: mollettone sotto-tovaglia, salvagocce centrale ricamato S. Marco, posate d’argento e oliera, sempre stile S. Marco e le caraffe! Del vino e dell’acqua, fresche di frigo. Il pane a fette, poco, per intingere tutto e lasciare il piatto pulito, questo sì, “pocia” mi dicevano! E io “pociavo”, tutto! Anche della minestra di riso e sedano non lasciavo traccia, mia mamy trovava meno da lavare…

Ma non potevo toccare i frutti del giardino fino a che non veniva mio papy, allora, solo allora ci scatenavamo a chi ne mangiava di più. Avevano la buccia scura, quelli dolci dolci, viola fuori, rossi dentro.

 

 

(Del glicine)

 

Del glicine è rimasto un tralcio, ma senza l'aria salsa, non è la stessa cosa. Guardo l'erba che insiste. A settembre l'uva piccola e nera ritornerà ma non ritornerà Giulietta, ne Mimma, con i loro gatti da laguna. Non ritorneranno perchè sono rimaste dipinte sul muro scrostato di villa Antonietta, sotto l'apparente ristrutturazione, tra le ragnatele del balcone, nei riccioli di ferro battuto della balaustra che dà sulla laguna dove i ragni gondolieri insistono.

La cassetta delle cartoline mi attirava perchè non potevo aprirla: conteneva anche poche lettere, con minute foglie d'edera spillate in alto a destra, e in corsivo minuto obliquo parlavano di amore galante o interesse diplomatico: sposavano entro la casta di appartenenza accumulando beni. Questo era il pudore. L'ottenni in eredità, quella cassetta di legno di ciliegio, una bara di ricordi e bugie. Oltre alle più ordinarie panoramiche, le figure di “signorine”, alla moda, passata. Visetti ammiccanti di pin-up collegiali. Costumi da bagno che coprivano ginocchia: uno di lana l'ottenni in eredità. Bagnato pesava più di me. Le tarme lo hanno assaggiato e così me ne sono liberata, perchè non è detto che tutti i ricordi debbano rimanere intatti. Liberarmi dei ricordi è stato facile ma ritornano quando vogliono e mi sorprendono.

 

 

(L’ultima estate)

 

Arrivati in villa non furono che esclamazioni. Ero cresciuta molto, troppo, disse Giulietta, uno sviluppo inconsueto a undici anni. Di certo non proporzionato al mio animo ancora infantile. E c’erano molte novità. Lavori in corso sulla parte del giardino dove si stendeva: ampliavano, progetto di Mimma e banchiere, per ospitare dei nipoti e assicurarsi compagnia e assistenza in futuro.

Per Olimpia questo significava solo una cosa: la biancheria che lavava nel seminterrato doveva portarla su in terrazza, altre scale, altra fatica con il peso e le proposi di aiutarla, così sarei stata al sole diretto, a picco, nelle ore più calde, in costume.

La terrazza di marmo bianco Carrara, tutta, rifletteva il sole e mi abbagliava, tra lenzuola candide, immobili, ma fresche e profumate di pulito, dopo la fatica mi stendevo ad abbronzarmi e mi assopivo.

Olimpia mi metteva un fazzoletto bagnato sulla testa, piano per non svegliarmi, a ripararmi da “l’insolasion”, che sarebbe il colpo di sole in testa.

E mi portava da bere, una caraffa con il tappo di vetro: era acqua e limone, ma Giulietta non lo sapeva!

Immagini ad occhi chiusi, macchiate di blu mi ritornavano dalla camera interiore della memoria, frammenti del cortile della scuola, del grembiule nero detestabile, del pendolo che una compagna faceva ondeggiare sul palmo della mia mano e prevedeva “niente figli” (ne fu smentita).

Rivedevo Marino che invitava a selezione, Marino che arrossiva incrociando il mio sguardo nel corridoio delle aule.

Nel giardino, quella estate non andai per giocare perché c’erano gli operai che giravano e stavo spesso nel salottino vittoriano a leggere e osservare il pianoforte che non sapevo suonare e toccavo appena potevo.

Toccavo i tasti, dal più acuto al più profondo mi piaceva il contrasto, l’acqua cristallina e il buio.

Osservavo le pareti dipinte di pittura color camoscio, decorate con linee sottili, dorate distanziate di trenta centimetri, il tavolino in vetro pieno, tipicamente di Murano. E stavo scomodamente seduta sul divanetto distratta solo dai motoscafi che solcavano quella fetta di mare tra il Lido e Venezia.

Il giardino lo osservai da un punto di vista diverso, dall’alto.

Dalla terrazza che sovrastava la villa, il solarium, vedevo tutto e lo sguardo regnava, ripensavo al mio giocare nel minuscolo camminamento di ghiaia e le aiuole che prima erano “il prato” ora così ridimensionate parevano piatti farciti di squisitezze, anche i gatti non erano più grandi felini ma come Macchiolino si mimetizzavano, come le parole che ora scrivo e che erano lì nella cinta della villa.

Anche la sera salivo lì, finalmente tutto il cielo di velluto nero punteggiato di formiche lucenti si apriva ai miei occhi. Mi accorgevo di non pensare, distesa sul vecchio materasso sul quale mi stendevo di giorno a prendere il sole, prendevo le stelle, e loro rapivano i miei pensieri e non pensavo, poi pensavo di non pensare, quindi pensavo a vuoto, senza pensieri. Forse mi trasformavo in gatto e fissavo il buio come Mimmo fissava me, tempo prima. Come una quasi-donna-gatto, ma immobile su quel tetto terrazzato, inconsapevole di poter saltare di tetto in tetto, di sogno in sogno ancora priva di sogni, innocente, ferma nel limbo custodito della latenza, custodita ed inibita, nel mio nido. Fino a sentire il mondo, la terra, il pianeta “dietro” di me, fino alla vertigine del vuoto sovrastante che ruotando diveniva antistante fino a capovolgersi, senza farmi cadere. Sentivo lo spazio senza più alto nè basso, immersa, incollata alla terra che mi gravava, attirandomi in un abbraccio invisibile e quando mi accorgevo mi prendeva l’ansia, che l’abbraccio finisse e potessi cadere giù, in su, non so. Cadere.

Lo stesso cielo della città si dilatava e profumava di tutto quello che i giardini del circondario offrivano, ma era l’aria del mare, aria salmastra e stagnante che imbibiva fino a salire, mi pareva, in alto, lassù. Laggiù. Intorno ma lontano.

 

(Lucia Lanza, estratto)

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