(Il seguente poemetto epico di calembour è stato composto su un peschereccio... a largo dello stretto di Messina, in fuga da una donna sicula particolarmente focosa).
Sapessi tu, o mia manta,
che barbo è questo mare,
mi rombo, qua, a pescare:
che noia, Alice mia!
Che due calamaroni!
Mi strombo anche la schiena,
tellina mia, che pena:
io me la squalo via!
II
Che ostrica la vita!
Son scorfano di madre,
scazzone era mio padre:
che cozza sto a far qua?
Che vuoi che io ne seppia?
Donzella mia, ti giuro,
trasloco di siluro,
io sgombro e vengo là!
III
Le carpe ormai sfondate
son da risogliolare,
i lucci da cambiare:
se piovre, che farò?
Andrò a spiedini nudi
e poi che Dio ci scampi!
Se ai gamberi avrò i crampi,
vedrai, mi sgranchirò.
Mi trovo un cavalluccio,
gli sarago su in groppa,
e trota, e poi galoppa,
a triglia sciolta, andrò.
E giù per gli ippocampi,
tra le alborelle in fiore,
tra le verdesche flore,
mi mazzancollerò.
V
Ti vedo: orca che mostro!
Bavosa sei, o mia amata,
nei dentici cariata...
io tonno a Cefalù!
E a razza scappo via
di polpo, in un baleno,
un lompo a ciel sereno,
che tinca resti tu.
VI
Acciuga le tue lacrime
e soffiati il nasello,
ti fai uno spinarello
e passera anche a te.
Mie cappesante in cielo,
salmoni recitate,
aringhe declamate,
orate Dio per me!