Era in corso una specie di gara, credo di bellezza o di simile intenzione.
La notte era buia e molto umida, non si distingueva il cielo e il mare, tutto era letteralmente affogato in un’oscurità che sembrava densa al tatto.
Sedevamo, io e le altre ragazze della gara, su un grosso peschereccio dove una lampara faceva luce sui nostri volti, alcune ridevano, altre parlavano con foga.
Io aspettavo Luisa, la compagna di liceo – Luisa – la più brava della classe, sempre a posto, ben vestita, amata da un ragazzo in gamba, pronta a dire la cosa giusta al momento giusto.
Per me rappresentava la perfezione, ora più di allora; so che nel mio inconscio Luisa era diventata un simbolo, una categoria spirituale con cui fare i conti.
Da ciò il suo frequente apparire nei miei sogni, nei momenti più strani e apparentemente senza senso.
Perché anche lei in quella gara? Forse perché la gara, la competizione è lo stato d’animo in cui mi sento continuamente proiettata, mio malgrado, e con sempre più fatica.
Lo sforzo psichico è tale che ho sempre paura di non farcela, di non essere all’altezza; io come le stupidine, le miss, che mettono in mostra il proprio corpo e si vendono nelle gare di bellezza. Io confusa nel buio umido tra cielo e mare, nell’oscurità indefinita dove tutto si perde, anche la propria identità. Ecco perché Luisa. Riemersa da un passato scolastico e sociale dove lei vinceva sempre ed io no.
Sul peschereccio adesso tutto taceva. Non sentivo più voci, le ragazze erano come scomparse; Luisa mi sedeva di fronte, illuminata in pieno dalla luce della lampara, perfetta con i suoi grandi occhi vellutati. Aveva un’espressione stranamente assorta, lontana, quasi infastidita di trovarsi lì.
In me lentamente cresceva l’angoscia, avevo capito perché era venuta e cosa stava per fare, ma, come succede nei sogni, mi sentivo paralizzata, le parole si strozzavano in gola, i gesti bloccati.
La vidi togliersi le scarpe, bianche come quelle delle ballerine di danza classica, spogliarsi dei bei vestiti indossati per la gara e, senza mutare l’espressione austera ed assorta sul volto, calarsi lentamente nel liquido oscuro e lentamente sparire.
Luisa tu sei l’altra “me”, sei la mia parte che rischia di perdersi nel buio, travolta dalle spinte di un’esistenza confusa e piena di falsi valori, cui non sempre so opporre resistenza.
Indosserò le scarpe bianche e insieme scenderemo dall’infame battello; andremo in cerca di una piccola barca per arrivare, se ne saremo capaci, a un mare limpido e azzurro.
(Ivana Jachetti)
L’incontro era stato programmato al telefono, dopo mesi di silenzio. Tu eri l’amore sognato e mai soddisfatto, l’ideale che non si concede o ti dà solo per ciò che non vorresti proprio da lui, amicizia in cambio di amore, gocce per un cuore assetato.
Eppure per anni avevo accettato quel gioco ambiguo, quel tuo esserci appena, quell’apparire quando ormai ti consideravo scomparso, giusto per capire se ancora esercitavi il tuo potere su di me.
Io non rinunciavo ad assaporare le emozioni che incontravo, né a programmare il mio futuro: studiavo, incontravo gente, cercavo di cambiare il mondo, avevo amori e storie. Ma tu rimanevi l’approdo ideale,e la speranza che prima o poi sarebbe successo mi occupava la mente e condizionava le mie scelte.
Invece niente, gli anni passavano e non succedeva niente.
Finchè ho deciso di smettere. Complice la fine degli studi e il rientro nel mio paese, sulle morbide colline marchigiane, da cui nei giorni chiari potevo scorgere i Torricini di Palazzo Ducale di Urbino, sono semplicemente sparita e ti avevo quasi dimenticato.
Poi, la tua telefonata, stupito di tanto silenzio; l’emozione mi aveva come sempre fatto accelerare le parole e i sensi. C’eravamo accordati per incontrarci ad Urbino il pomeriggio del giorno dopo, io avrei preso la corriera delle 16.
Mi ero preparata con cura, indossando il maglione di lana sfumata e i pantaloni di velluto ocra; pettinata e truccata con cura, col cuore in gola avevo preso la corriera.
Ma lentamente, mentre fuori dal finestrino i colori della campagna d’autunno si alternavano ai piccoli borghi, affiorava un malessere, un’inquietudine si allargavano sull’emozione e le aspettative dell’incontro.
Puntualissimo, l’automezzo si arrampicava sulle ultime curve, dietro cui improvvisamente appariva Urbino, magica e regale.
Mi sono affrettata a scendere e in pochi minuti ho raggiunto la piazzetta. Non eri ancora arrivato e ho avuto tutto il tempo di trovare riparo dietro un furgone. Ti ho visto emergere da dietro l’angolo, camminavi lento, con la testa incassata nelle spalle e nel collo rialzato del giaccone. Gli occhiali leggeri che ti davano l’aria da intellettuale che amavo tanto e i capelli ondulati ti coprivano la fronte. Guardavi in giro e ogni tanto l’orologio, senza ansia, né trepidazione.
Lentamente mi sono mossa e, cercando di non farmi vedere, ho ripreso la strada che portava alla stazione delle corriere, la mia sarebbe ripartita tra pochi minuti.
(Ivana Jachetti)