Caro Samuel

 

Caro Samuel ti scrivo da una città ieratica e lunare mentre ti starai facendo un giro con le cuffie in testa ad ascoltare elettronica sperimentale e sorseggerai un gradevole aperitivo. Dalla radio mi accompagna una musica di archi, tamburi e voci. Un ritmo che non posso ignorare. Pochi minuti poi è la catarsi. Mi consola anche una luce piccola, fluorescente: è l’unica davvero accesa ed io ne sono consapevole. Ecco che raccolgo le mie braccia penzoloni, ecco che mi tolgo i vestiti e rimango nudo. A piedi, a torso nudo mi affaccio dalla grotta roteando come uno zingaro. Immagino che tu sia già al sound-check, spietato come un avvoltoio, deciso come un leone. Penso che prima di cantare nel palasport ti conceda una classica cena. Poi potrai anche spegnere la luce, chiudere la porta e schiacciare un pisolino sdraiato sul pavimento di linoleum. Ti risveglierai stappando lattine red-bull e preparandoti con della buona grappa. Una corsa all’interno della location, un po’ di stretching ti aiuterà a recuperare energie. In quanto a me. Le deflagrazioni dei bombardamenti mi risvegliano spesso nel corso della notte. Un ritmo intermittente che potrebbe infastidire le mie orecchie. Alzo gli occhi e guardo le lucine che fioccano nella notte: si confondono con le stelle. Ti vedo già sul palco: potenti fari illuminano un movimento di corpi e braccia, qualcuno si improvvisa direttore, altri spingono per dar ritmo al loro corpo. Ti dicevo che luci improvvise scendono dal cielo e si mescolano a forti rumori. L’agitazione poi muove le persone. Ci si ritrova in una pista da ballo, c’è ritmo in tutto questo e che sudore! Che scarica di adrenalina! Sei sconvolto? Sei schifato? Forse per te l’aftershow sarà un pochino problematico. Ripetuti assalti di teen-ager ti spingeranno a rinchiuderti in camerino. Per me il dopo è: “Sempre che ci sia”. Nell’ultima lettera mi dicevi che ti volevi sottrarre al bombardamento mediatico. Accennavi a stantii opinionisti che appaiono per celebrare la loro messa, pardon la loro messinscena: scandiscono le semplificazioni di sempre. Comunque sono contento: mi hai detto che scendi in piazza, costeggi il lungofiume, ti dirigi al mercato che sembra un suk. Continua caro Samuel: rendi la tua città visionaria e concreta, con la tua musica ridona colore a dei fari clonati o a delle arrugginite impalcature spartitraffico.

 

(Roberto Estasio)

 

 

Fustagno a briciole

 

Giovanni è stato il mio miglior amico. Un sodalizio nato verso la fine degli anni settanta ai tempi delle Magistrali quando imperversavano gli Indiani Metropolitani e le spaccate degli Autonomi.

Io ero un inquieto adolescente, lui all’apparenza un adulto già navigato.

Quasi secchioni a scuola,distaccati fuori; il destino ha voluto che ci incontrassimo seduti,fianco a fianco, su un autobus di linea.

Mi incuriosiva,mi indisponeva.

Ricordo quel giorno di primavera,il cielo coperto,le nuvole basse.

Si levavano le foglie che un dolce vento faceva imbizzarrire. I nostri sguardi furono il lampo di un momento. Rividi in lui un padre diverso dal mio. Una scarmigliata pettinatura teneva a freno capelli neri come il catrame.

Naso adunco, pelle olivastra, sudaticcia: un corvo imprigionato da una spessa patina di brillantina.

I vestiti li raccoglieva da vecchi amici: operai alla Fiat, elettricisti dell’ENEL. Si divertiva ad accostare indumenti imbalsamandosi in completi dalle tonalità cromatiche scure. I pantaloni erano sempre gli stessi, di fustagno: un peluche che si portava appresso.  

La sua era (è) una vita provvisoria.

Spesso ci si vedeva sulle colline torinesi. Ci piaceva correre lungo le stradine impolverate mentre alte si levavano le faville di sterpaglie messe a bruciare.

Immerso in questo profumo di erba, mischiato a cenere, lui avanzava nella salita sorretto da una rigidezza dolorante e disperata. Mi punzecchiava dicendomi che avrei avuto una vita agra come un limone acerbo. Mentre tentava di scuotere la mia vita, però, mi parlava della sua. Da una folta siepe di sopracciglia nere mi diceva che presto aveva lasciato la casa materna per infilarsi in due stanzoni del centro storico di Torino.

Dentro anche un lavandino ricavato da una vecchia mangiatoia per mucche.

Fuori un ballatoio che portava ad una turca.

Mi raccontava che i primi tempi non apriva quasi mai gli scuri. Talvolta osava scrutare il cortile attratto da un insolito vociferare. Ben presto si era abituato a queste acute frasi.

Si era staccato dal sua madre ma non riusciva a staccarsi dalla sua casa temeva il mondo:per anni al ritorno dal lavoro si sarebbe consolato con una bottiglia di sambuca.

Lo avrei amato in maniera pudica e passionale. Niente sesso, solo la passione del camminare e la ricerca di teneri volumi tascabili da regalargli ogni fine mese.

 

(Roberto Estasio)

 

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