L’Araba fenice
La fulva capigliatura non era più indomita e ribelle, ma alquanto ammansita da lacche ecologiche e gel ristrutturanti. Elisabetta scrutava impietosamente il suo viso aggredito da un invecchiamento precoce.
Adesso, a soli 41 anni, aveva un rapporto conflittuale e critico con la sua immagine, con il proprio corpo, odiava e amava allo stesso tempo gli specchi. Li amava perché le mostravano che era viva, li odiava perché rimandavano un’immagine che non riconosceva, che sentiva di non meritare e riteneva troppo diversa da come se la sentiva dentro. Talvolta copriva gli specchi con un drappo color viola. La sua disistima corporea andava di pari passo con quella generale.
Era una lotta impari, un’affannosa corsa contro il tempo, una battaglia persa in partenza e lei lo sapeva.
Era una donna intelligente, colta, brillante, ricca di qualità, bellissima dentro, ma sola in quanto l’optimum per quei rari uomini intelligenti e coraggiosi, però troppo impegnativa e in gamba per i restanti maschi, stupidi e senza attributi, quelli che preferiscono per insicurezza dominare o che si accontentano…
Si era pentita di essersi trasferita in Sicilia, l’aveva fatto per amore, ma ora era tutto diverso: quell’amore non si era rivelato tale, quell’uomo si era trasferito a Milano per lavoro. Lei rimpiangeva la sua Bologna, ma non poteva più tornarci, non voleva, anche perché tutti la sapevano felice con quel suo futuro marito, felice e appagata in Sicilia. Bugie, omissioni, recitazione, menzogne, un cumulo di menzogne, era stanca di dirle, era stanca di sforzarsi di tenerle a mente o di ricordarle, ma soprattutto odiava dirle, non era nella sua natura. Da quando era rimasta sola era stata un’impresa titanica trovare una casa, un lavoro per diversamente abili, ricominciare tutto da zero e iniziare a essere guardata da handicappata, ad essere considerata non più ”normale”, a non essere più ”sana”. Amava la Sicilia, i suoi colori caldi e vividi, il mare, la generosità dei siciliani, ma ora si sentiva un’ospite non gradita, un peso, un disturbo, stranita ed estranea, non riusciva più ad accettare le distanze, le differenze che prima tanto aveva apprezzato, non riusciva più ad accettare una mentalità e una cultura così diverse dalla sua, non riusciva a farsi accettare, non si sentiva accettata bensì respinta. Lei era, restava, “la straniera”. Il suo amore l’aveva lasciata, per una ragione ignobile, non per giustificati motivi, né per ”esaurimento” di passione, piuttosto per mera vigliaccheria e disonestà, forse anche per i tanti sensi di colpa: per averle mentito, omesso e nascosto tante cose, per le sue modalità subdole e utilitaristiche, per i suoi gesti e comportamenti surrettizi, per averla tradita e non solo una volta. Il doversi trasferire per ragioni legate al lavoro era solo una scusa, un alibi, un accadimento pretestuoso per “disfarsi” di lei. Salvatore, vile e falso, era fuggito, era scappato dal dolore, dalle responsabilità, dagli impegni, dall’amore.
Era l’ultimo sabato di maggio di due anni prima. Una sera magica, profumata di mare e avvolta da un’atmosfera calda e placida allo stesso tempo. Un amplesso infinito li aveva strappati alla realtà e consegnati all’eternità. Con l’aria svagata, estatica ed euforica, rientravano a casa, coccolandosi di baci e carezze. All’improvviso quel sogno si era trasformato in un incubo, una tragedia, uno choc, un trauma. In seguito all’incidente automobilistico, Elisabetta, era rimasta in coma per due settimane e al suo risveglio aveva appreso due notizie, ancora non riusciva a stabilire quale delle due fosse stata la più dolorosa. Era viva, ma avrebbe avuto un’esistenza da paraplegica. Salvatore le aveva lasciato un bigliettino tra sparute rose ormai appassite. Poche frasi, neppure memorabili. Più che altro una formalità, per metterla al corrente della sua decisione, per comunicarle la sua repentina e ”giustificata” partenza. Da quel giorno l’inferno… Due anni di sofferenze psicofisiche, dolore indicibile, di ricostruzione, di domande senza risposte, di lotte quotidiane, sopravvivenza e solitudine. Mentre Salvatore l’aveva dimenticata e sostituita in fretta… Aveva pure avuto un figlio dalla sua nuova compagna, quel figlio che diceva di volere da Elisabetta. Lunatico, volubile, inaffidabile, o mistificatore, istrione, bugiardo e basta? ”Un uomo senza qualità” come di lui avrebbe detto Musil. Elisabetta lavorava come centralinista al Comune di Lentini ma viveva ad Augusta. Da un anno inoltre lavorava di notte come operatrice telefonica per una linea erotica. Era il suo, segreto, secondo lavoro. Non lo faceva solo per soldi, ma perché ciò le consentiva di avere una vita virtuale, una ”second life”, un corpo sano e desiderabile, un viso giovane e seducente. E anche sesso virtuale.
Aveva visto il suo corpo e il suo volto trasformarsi, senza che potesse impedirlo in alcun modo. A notte fonda si sdoppiava, ma era ben cosciente di interpretare un ruolo, non era una borderline, non soffriva di patologie e turbe psichiche, era stata seguita anche da uno psicoterapeuta nel corso della terapia riabilitativa dopo il coma e anche per superare una leggera depressione reattiva e i Dap, gli attacchi di panico successivi all’incidente. Era sola, disperata, amareggiata, addolorata, inquieta, rassegnata, paralizzata anche dentro… Il suo ”alter ego” le regalava sporadici momenti di oblio, distrazione, compagnia, eccitazione. Talvolta dolcezza, “calore”. Selvaggia, dai lunghi capelli corvini, dagli occhi verdi, dal corpo statuario da top model, dal viso perfetto e levigato, dallo sguardo magnetico e corrusco, dall’incarnato diafano, pelle di porcellana e di seta, era la sua alleata, il suo ”avatar” era la sua ancora. Lei prima si piaceva, ma non si era mai sentita accettata, né desiderata. Brutta l’avevan sempre fatta sentire, i genitori anaffettivi ed egoisti, i maschi stupidi e cattivi. A lei piacevano i suoi capelli rossi e ricci, il suo pallore, le sue efelidi e lentiggini, non detestava il suo corpo mediterraneo, i fianchi larghi, l’adipe, il seno abbondante ma non sodo e alto, le natiche grandi e non toniche, il fisico non filiforme come una silfide. Era intelligente, una persona estremamente buona e ipersensibile. Non riusciva ad accettare ma nemmeno a capire la superficialità, la volgarità di una società materialista e, dalle vite, dai ”sentimenti”, liquidi, volatili, fatui, incostanti, fugaci, non profondi, non durevoli. “Bellezze” stereotipate e “fotocopiate”, falsi valori, egotismo e individualismo, sesso senza sentimenti, realtà virtuale, soldi, potere, carrierismo, arrivismo, ipocrisia, invidia, cattiveria, ritmi concitati e stress ossidativo, new economy, pornografia, apparenza e non sostanza, tutto ciò le era così estraneo e nauseabondo, non le apparteneva, la faceva soffrire, si sentiva una mosca bianca, un’aliena. Non capiva perché la maggior parte delle persone anziché vivere si lasciasse vivere o “si limitasse a esistere” come Wilde scrisse, o si perdesse in un mare magnum di falsità, maschere, sovrastrutture, corazze, autoconvincimenti erronei, surrogati, consumismo, distorsioni cognitive, o sprofondasse nel lassismo rinunciatario, nell’immobilismo, nel disprezzo generale un po’ come nella favola di Esopo della Volpe e l’Uva. Voleva con tutta se stessa essere felice, ritrovare la serenità, ma non riusciva ancora a liberarsi del passato definitivamente, voleva ricominciare a vivere ma non aveva le risorse necessarie per farlo. Si trascinava in maniera apatica e abitudinaria, recitava a copione ogni giorno, ogni singolo momento di quell’esistenza che le sembrava così immeritata ed estranea… Da alcuni mesi aveva cominciato a navigare in Internet e ogni sera visitava siti per single, si perdeva nei meandri e labirinti delle chat. Aveva due agende stracolme di numeri telefonici, s’intratteneva per ore sia con i clienti della hot line che con i suoi corteggiatori virtuali delle chat. Sembrava fosse padrona, in realtà schiava, di quella sua nuova esistenza, di quella sua doppia vita. Poteva farsi corteggiare, essere dolce o aggressiva, “fascinosa pantera”, poteva fare l’amore e provare piacere, orgasmi reali grazie alla finzione però... Era lei a gestire il tutto, era lei a essere sempre cercata, corteggiata, desiderata, “amata”. In quei momenti tutto era amplificato all’ennesima potenza, era tutto meraviglioso e fuori dall’ordinario, ma quando poi si ritrovava a vivere l’esistenza quotidiana si sentiva stretta in una morsa come un animale intrappolato e agonizzante. Dei suoi innumerevoli spasimanti ricordava poco o nulla, erano come tasselli di un mosaico virtuale. A volte, per non confondersi con i nomi o quando non riconosceva immediatamente la voce, si cavava d’impaccio con nomignoli, vezzeggiativi banali e comuni ai più. A volte adorava questa folla disordinata di ammiratori, ma ancor più spesso li detestava, li reputava”bastardi”, “sfigati”, “perversi senz’anima”, pensava che avessero tutti gravi problemi di timidezza patologica, deficit sessuali, turbe e problemi psicologici, caratteriali, difficoltà di relazionarsi nella realtà con le donne, o che fossero mariti, conviventi, fidanzati, fedifraghi e bastardi, o bugiardi patologici che vivevano di inganni e menzogne, di doppie personalità, di doppie vite, materialisti e tutti vuoti, tutti uguali, schizzati, banali, noiosi, prevedibili, fatti in serie. Li detestava perché non erano veri, perché non desideravano, non amavano lei, bensì quella falsa immagine, o qualche loro proiezione ideale, qualche loro totemica idea d’immagine femminile ”perfetta”, irreale, da idealizzare, plasmare in base ai loro desideri e preferenze. Bastava mormorargli qualche frase sexy, fare la gatta morta, per farli andare su di giri, perché erano ”a benzina” (lei invece, come le donne vere, un ”diesel”), loro s’infiammavano subito, erano poi così superficiali e stupidi da ”innamorarsi” di una donna virtuale, da eccitarsi per mezzo di una bugia, di un grosso bluff. Volevano essere presi in giro giacché loro per primi ingannavano. Cercavano solo sesso da lei e non sapevano amare né nel virtuale né nella vita reale. Da un po’ di tempo era annoiata, disgustata, inoltre i suoi incontri non reali le procuravano ora fastidio, amarezza, depressione, insoddisfazione, rabbia, era come assuefatta, alienata, dipendente, intossicata. Aveva scelto come ”vittima sacrificale” e ”capro espiatorio” quello che fra tutti le era sembrato l’ideale. Angelo, dolce, passionale, sicuro di sé, allegro, ricco, attraente, spiritoso, forte, apparentemente granitico, corteggiato da tante donne, medico di successo, fortunato. Si era immaginata lo scenario, voleva un impatto dapprima dirompente e poi agghiacciante per quella grottesca cena a lume di candela. A tratti si sentiva in colpa, si rendeva conto di quanto potesse diventare cattiva, crudele, sadica, di quanto fosse stupido e insensato quel suo macabro gioco, di quanto fosse ingiusto e insano, patologico, far pagare ad Angelo tutto il male che le aveva fatto Salvatore. Adesso non sapeva se essere grata a Salvatore per quei pochi mesi di felicità, per averle fatto scoprire l’amore, o se odiarlo e cancellarlo per tutto il male che lui le aveva fatto, ex abrupto, gratuitamente, senza un grave motivo, per averle rovinato la vita, per averle mentito, omesso, nascosto di tutto… Per le sue farse, per averla tradita sessualmente, per aver tradito la fiducia di lei, per averla ingannata e usata, per averle in fin dei conti tolto più che dato, per averla ferita e abbandonata. Quando si trovò Angelo di fronte, gli disse: ”Io sono Elisabetta”. Un rivo di lacrime le scorse sul dolce viso. Ma Angelo le strinse le mani, s’inginocchiò e le baciò teneramente le dita, poi i capelli, la fronte, le labbra. “Ho perso mia moglie e mia figlia in un incidente automobilistico. Ora ho te, mi hai fatto risentire vivo, felice, e con uno scopo nella vita. Eravamo due naufraghi ma, senza saperlo, con speranze, tanta vita ancora dentro, e tanto amore da dare. Mi sono innamorato di te, della tua anima, della tua voce, di come tu sei, Elisabetta. Amore guarda non con gli occhi ma con l’anima. Lo scrisse Shakespeare e, da uomo, lo credo anch’io, amore mio”. Angelo la prese in braccio, baciandola con tenerezza, infinita dolcezza e passione. Stringendola a sé come un tesoro prezioso, come una bimba da coccolare, come la sua amata donna. Sarebbe stata una lunga notte, bellissima, indimenticabile. E, per loro due, l’inizio di una nuova vita e di un amore per sempre.
(Patrizia Di Franco)