Proiezioni

 

Era lì davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. Ma voleva farlo davvero? O piuttosto ero io a volermi svelare? Era trascorso poco meno di un decennio da quando la nostra storia aveva avuto il suo epilogo e quell’appuntamento al parco, testimone segreto e custode di tanti discorsi, mi appariva fuori del tempo, dalla realtà che stavo vivendo adesso… Anche il parco mi appariva diverso, più spoglio, più vuoto, le foglie venute giù dagli alberi erano gialle e rinsecchite e il calpestio prodotto dalle mie scarpe sembrava il loro ultimo grido di dolore. Il sole era pallido e ben s’intonava al colore del mio viso, il vento impetuoso e sferzante, in quella gelida mattina d’inverno, faceva da sfondo al mio animo logorato e ridotto in brandelli.

Razionalmente non avrei voluto, né dovuto essere lì, ma dentro il mio petto il cuore non volle ascoltare gli impulsi che partivano dal cervello e ora ero lì in attesa di veder cadere l’ultimo strato di orgoglio rimasto celato, in quegli anni, da un vestito di indifferenza che mi ero cucito addosso come una seconda pelle e di cui adesso mi sentivo denudare sotto il suo sguardo profondo e penetrante nel quale mi ero persa anni addietro.

Fino a quel momento mi erano sembrati anni-luce, ora invece mi rendevo conto che un filo impercettibile all’altrui occhio, mi aveva sempre legato a quel pezzo di vita e nonostante tutti gli sforzi che avevo fatto, mi rendevo conto solo adesso di non essere mai riuscita a strapparmelo dal cuore, da quello stesso cuore che mi aveva convinto ad accettare l’appuntamento in quel parco.

Marco mi aveva cercato spesso, ma io con altrettanta determinazione lo avevo sempre evitato, avevo “faticato” tanto a crearmi una nuova identità e temevo di dovermi rimettere in discussione; poiché ogni qual volta lo incontravo a malapena riuscivo a mascherare il mio disagio.

Mi faceva troppo male rivederlo, i ricordi riaffioravano in superficie e con essi il dolore, questo “gran maestro di vita”, ma evidentemente ero stata una cattiva allieva, dal momento che dopo tanti rifiuti ero giunta su quella panchina che da gelida era diventata rovente. La stessa tensione doveva provarla Marco, mi guardava, infatti, in sacrale silenzio intriso di mille discorsi che volteggiavano nell’aria come in una danza ritmica ed appesi ad un filo invisibile non riuscivano a spiccare il volo, come l’aquilone di un bimbo a cui manca il vento, a noi mancava l’aria.

Conoscevo troppo bene i suoi gesti, la sua mimica facciale, per non percepire dal suo viso contratto lo stato d’animo ed ero ben conscia del fatto che anche lui mi stesse leggendo dentro.

Sembra strano, eppure come è difficile parlare con chi ti conosce bene, il timore di sapere che anche una sola parola non viene detta per caso e anche un gesto ha una sua valenza.

Il cuore cominciò a battere all’impazzata all’unisono con le contrazioni del mio stomaco che sembrava si restringesse fino alle corde vocali, quasi per evitare che mi uscissero le parole. Alzai lo sguardo e specchiandomi nei suoi occhi verdi riuscii a dire: “E allora?”

Sul viso di Marco si delineò un sorriso che apparentemente parve gli avesse fatto ingoiare l’ansia, si accese una sigaretta e nel fumo di essa raccoglieva le parole per dirlo... Non staccò il suo sguardo dal mio viso un solo istante e nonostante io chinassi il capo più volte lui con la mano me lo riportava su, quasi pregandomi di ascoltarlo. La sua passione per me non era mai tramontata, il tempo trascorso gli aveva procurato solo qualche filo grigio tra i capelli rendendolo più interessante, le vicissitudini della vita, il mio nuovo rapporto lo avevano paradossalmente portato a legarsi di più ad una storia finita da un pezzo, cercava nei miei occhi una sua immagine e mentre lui parlava, la mia mente andava a ritroso nel tempo e tutto sembrava materializzarsi lì davanti; rivivevo le situazioni, i momenti felici e quelli più disperati, la corazza che mi ero creata intorno incominciava a incrinarsi, ma io non potevo permettere che quegli istanti di ricordi potessero rovinare la persona nuova che ero, avevo impiegato anni per ricostruirmi e nonostante vedessi lo sgretolarsi di tante sicurezze acquisite nel tempo ero combattuta tra il lasciarmi avvinghiare in quel cespuglio di rose ricco di spine o tornarmene alla mia quotidianità.

Inaspettatamente fu Marco ad andarsene pronunciandomi queste parole :

“Sara, io ti amo ancora, perdonami se è una colpa amare”.

Imboccò il viale d’ingresso senza girarsi indietro un solo istante. Lo seguii con lo sguardo fino a quando scomparve alla mia vista. Al tumulto di emozioni che avevo provato fino a quel momento subentrò il gelo nell’anima, cercai nella mia borsa, tra tutte le cose alla rinfusa che ci avevo gettato dentro, il mio “vecchio” pacchetto di sigarette, vecchio poiché non fumavo più, tranne che in situazioni di particolare disagio e questa era una di quelle. L’accesi notando il tremore delle mie mani, aspiravo da esse delle brevi ma intense boccate e guardando a terra vidi quante ne aveva fumato Marco, alcune erano state spente a metà, solo poche erano state aspirate del tutto, mi guardavo intorno sperando di sognare, come uno struzzo cercavo di decentrare i miei pensieri che invece spinti da chissà quale forza superiore si concentravano tutti su Marco.

Le innumerevoli sigarette fumate non fecero altro che aumentare la mia confusione, ad un tratto sentii il mio viso rigarsi di lacrime, non provai né a ricacciarle né a trattenerle, ma senza pudore lasciai che scivolassero via.. E con esse i miei pensieri, anzi il turbinio di essi, sentivo come se la mia testa fosse un labirinto e non riuscisse a trovare la via d’uscita, vedevo solo specchi deformanti che falsavano il mio essere, per quanto mi sforzassi non riuscivo a trovare un filo che mi conducesse fuori da quella storia e, forse, da me stessa.

Non avevo voglia di tornare a casa; mi rincantucciai sulla panchina e lasciai che il sole,ormai alto, mi scaldasse anche l’anima. Nel silenzio del parco e nella più completa solitudine sopraggiunse uno

stato di torpore,nel quale scivolai, quasi, senza rendermene conto. Mi risvegliai al crepuscolo, il sole era ormai morto all’orizzonte e un mucchio di foglie mi aveva coperto metà corpo.

Mi alzai di scatto e guardandomi intorno fui presa dal panico, il parco mi apparve indistinto, riuscivo a vedere solo i contorni degli alberi, in un gioco di ombre e di poca luce mi sembravano personaggi spettrali, perfino il fruscio delle foglie aveva un suono sinistro.

Mi rigiravo in tutte le direzioni con la speranza di scorgere un viso, ma tutto intorno era deserto, notavo solo delle strisce di luce bianca che si alternavano al buio completo, istintivamente alzai il capo e la luna sembrò sorridermi per rassicurarmi, cercai di farmi coraggio e stringendomi nel cappotto, con più forza, cercai l’uscita; ma per quanti giri facessi non riuscivo a trovarla.

Ben presto il panico si trasformò in puro terrore, sentivo la testa girarmi, le mani e la fronte grondanti di sudore, riuscivo quasi a contare i battiti del mio cuore e mi sembrò di impazzire…

Provai ad urlare, ma la mia bocca non emetteva suoni, la mia mente non riusciva più a pensare, non

ricordavo neppure il motivo per il quale ero giunta in quel posto, ero sfinita; non pensavo neppure al sorgere dell’alba che in altri momenti mi aveva aiutato a superare delle notti insonni; ormai ero convinta che forse giunta la mia “notte” e con essa il distacco da tutte le cose, dalle persone, dalle storie e da me stessa. Che strano proprio in quel parco! Un luogo d’amore e di diletto per molti, era diventato per me l’ultima dimora. Pensavo a quante cose avevo lasciato incompiute e quante avrei dovuto compierne, gli errori commessi, quante scuse non espresse, parole mancate e discorsi inesatti, inutili logorree e taciti silenzi.

Ed ora ero in questa gabbia di ricordi, il mio cervello era una meteorite infranta che si dipanava in tante schegge che correvano in tutte le direzioni apparentemente senza alcun filo logico, eppure erano collegate…

Sentivo un gran peso sul mio ventre e non riuscivo a liberarmene, le rivedevo, le sfocavo, le disfacevo e poi le ricomponevo; alla fine l’unico risultato che ottenevo era una gran spossatezza. Ripresi le forze e mi rimisi a girare per il parco, ma l’unico posto presso il quale giunsi fu la panchina, mi sedetti e mi presi la testa tra le mani, le uniche certezze che avevo erano due: la mia mente e la panchina,mi sdraiai su essa e mi misi ad osservare il cielo, contavo le stelle, non mi ero accorta di come fosse terso in certe sere d’inverno, la luna ogni tanto faceva capolino e mi teneva compagnia, ormai alla paura iniziale era subentrata una strana pace; mi chiedevo se non fosse la “fatal quiete” e non mi dispiacque più di tanto.

Ad un tratto scorsi una strana luce tra le nuvole, mi incuriosii, pensai ad una stella cadente ed invece la sentii sempre più vicina, alzai un braccio come per difesa e invece mi resi conto che mi stava inondando; non c’era più il parco intorno a me ed io mi sentivo leggera, eterea, attraversai il sentiero luminoso e ripercorsi tutta la mia vita.

Mi sentii piena d’amore e non più prigioniera dei ricordi di esso, la mia mente era di nuovo presente nella realtà; vedevo tutto chiaro, sapevo chi ero e cosa volevo, avevo lasciato “l’anima disfatta” su quella panchina, mi ritrovai a rinascere. Provai un gran calore, come quando si fa uscire dal grembo materno una nuova vita e cessa il dolore.

Aprii gli occhi e mi ritrovai nel letto accanto a Luca, lo guardai come se lo vedessi per la prima volta, era bellissimo il suo profilo, sentii tanto amore dentro a scoppiarne, mi avvicinai a lui piano, poi lo baciai con passione come non era mai successo prima.

Luca si svegliò perplesso e senza pronunciare parola alcuna mi guardò; ora era lì davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi.

 

(Nunzia D’Orsi)

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