Un incredibile azzurro

 

Alla fine del 1800 Charles Webster Leadbeater, un sacerdote anglicano, abbandonò la Chiesa, per seguire le attività della Società Teosofica di cui, in seguito, diventò uno dei massimi esponenti. Trasferitosi ad Adyar, in India, all’inizio del Novecento, sviluppò la sua attività insieme ad Annie Besant, viaggiando in tutto il mondo per diffondere gli insegnamenti teosofici. Nominato ve­scovo dalla “Chiesa cattolica liberale”, una piccola chiesa riformista con un migliaio di fedeli a Sidney, nel 1923 rientrò definitivamente in Australia, dove morì nel 1934. Leadbeater, in seguito a lunghi esercizi di profonda meditazione, una volta ebbe un sogno eterico che gli rivelò la visione di una tonalità di un azzurro incredibile. Da quel giorno si mise alla ricerca di quel tipo di azzurro, cercando in ogni angolo del mondo. Solo dopo molti anni riuscì a trovarlo, in un piccolo negozio di Napoli, era un velluto che riproduceva esattamente quel colore stupefacente che il maestro aveva sognato, da allora quel velluto viene usato per provocare negli adepti sogni esoterici particolari.

 

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Napoli 1920 

 

La bottega di Gaetano era al numero 108 di via Santa Maria Antesaecula, una delle tante piccole strade nel cuore del rione Sanità. Gaetano vendeva stoffe, cappelli, ombrelli, giacche, bottoni, filo, aghi ecc., nonché altri prodotti, tipo: naftalina, trappole per topi, santini, candele e olio d’oliva i quali, anche se non c’entravano niente con l’attività principale dell’impresa, servivano comunque a mantenere ampio il giro dei clienti. Tutti nel rione, conoscevano Gaetano e lui conosceva le misure di tutti, ma pochi erano quelli che riuscivano a farsi cucire una giacca o un paio di pantaloni, figurarsi un vestito. La miseria non scherzava. Nelle famiglie, i vestiti dei vecchi passavano ai giovani e quelli dei grandi ai piccoli, così Gaetano si era specializzato nel rivoltare, adattare, ridurre capi che, qualche volta,  riuscivano a superare anche le tre generazioni. Come tutte le mattine Gaetano, dopo aver aperto “il suo atelier” (come lo chiamava lui), a testa bassa, si era messo a spazzare il tratto di vicolo davanti alla bottega poi, come tutte le mattine, mentalmente si era messo a contare. Sapeva già che, arrivato al quattordici o al massimo al diciannove, avrebbe sentito la solita  voce.

«Gaeta’!»

Aveva contato fino a sedici.

«Buon giorno signora Anna.»

Anna abitava al primo piano proprio di fronte a Gaetano. Fin da quando era una ragazzina, andava a servizio presso una famiglia di nobili. La solita storia: in gioventù, il marchesino l’aveva messa incinta ed il marchese padre aveva sempre rifiutato di dare il suo consenso al matrimonio. Passati gli anni, morto il marchese, alla fine anche al marchesino era passata la voglia di sposarla, così Anna si era ritrovata sola e con un figlio da crescere.

Il figlio dello scandalo e del peccato si chiamava Antonio, allora aveva ventidue anni, ed era la disperazione della madre.

«Gaeta’, avete visto Anto’?»

«Mi dispiace, ma aggi’aperto da poco, stamani ho fatto tardi.»

«Lo possino accide!» borbottò la donna lanciando occhiate lungo la via.

«Che succede?»

«Quel figli’e n’drocchia è tornato a notte fonda e stamani alle sette era già sparito.»

«Sarà andato a lavorare.»

Anna esplose in una risata: «Chi, Anto’? Non mi fate ridere! Quello vuole fare l’attore! Lavorare... tze! Figuriamoci!

Gaetano conosceva bene Antonio, lo aveva visto crescere nei vicoli del quartiere e conosceva da sempre la passione del ragazzo per il teatro. Gaetano, in cuor suo, aveva un debole per Antonio e avrebbe fatto di tutto per veder sbocciare l’enorme talento che quel giovane allampanato, aveva nel sangue.

«Gaeta’, fateme nu’ favore.»

«Dite Anna.»

«Si vedete quel fetente, ditegli che se si fa vedere, lo butto dint’o Vesuvio.»

«Sì ar…»

Gaetano non fece a tempo a dire altro, che Anna era già sparita dietro le persiane. Fece un lungo sospiro, poi giudicò che aveva spazzato abbastanza e rientrò nella botteguccia. Quella mattina aveva da fare: il dottor Quagliarulo gli aveva commissionato il rifacimento dei colletti di due camice. In realtà Quagliarulo non era un dottore, ma uno di quei pochi poveracci che sapevano leggere e scri­vere e che, per sbarcare il lunario, scrivevano lettere, biglietti, note, elenchi, per tutti coloro – ed erano tanti – che non erano in grado di farlo. L’analfabetismo, in quegli anni, più che una piaga, era un’epidemia.

Gaetano si era messo da un minuto al lavoro, quando si spalancò di botto la porta.

«O Madonna!» Gaetano sobbalzò sulla sedia.

Antonio richiuse subito la porta dietro di sé.

«Gaeta’...»

«Anto’, ma tu si’ pazzo... »

«Gaeta’... hai visto a mamma’ stamani?»

«Come no! Ha detto che se ti prende di butta dint’o Vesuvio!» Gaetano si asciugò il sudore per lo spavento.

«Gaeta’!» il giovane lo guardò con gli occhi che brillavano.

«Che c’è, che tiene?»

«Gaeta’...,» Antonio si esibì in un sorriso a trecentosessanta gradi, «stasera debutto!»

Gaetano spalancò gli occhi e afferrò le spalle del giovane: «O’ vero?»

«Sì Gaeta’, al varieté della Sala Napoli e la prossima settimana... indovina?»

«Addove?»

«Al teatro Orfeo!»

«O Madonna santa! Che bellezza! Finalmente ci sei riuscito!»

«Sì, solo che ho bisogno di qualcosa... »

«Che cosa?»

«Prima di tutto di un nome di battaglia.»

«Comme ti chiamavi qualche anno fa?»

«Clerment... pe’ carità è na’ schifezza, sembra il nome di una purga!» Antonio fece la faccia disgustata, «vabbe’ al nome ci penserò dopo, ora mi serve un vestito.»

«U’ Madonna...» Gaetano guardò la figura magra e allampanata di Antonio, poi si voltò e dette un’occhiata al magro guardaroba e tirò fuori una giacchetta chiara gessata, «Prova questa.»

Antonio si infilò la giacca e Gaetano scoppiò a ridere.

«Sembri un attaccapanni!»

«Allora va bene!»

«No, invece di comico, si’ ridicolo.»

Dopo diversi tentativi a Gaetano venne un’idea; «Anto’ perché non provi qualcosa di più grande?»

«Come?»

Gaetano tirò fuori un vecchio e stinto frac, «Prova questo.»

Antonio lo indossò: i calzoni gli arrivavano alle caviglie e le maniche gli coprivano le mani.

«Sembri nu’ palombaro, ma si’ perfetto!

«Grazie Gaeta’… solo che ora non posso… pa… pagarti…»

Gaetano lo guardò sorridendo. «Ma vattenne! Me li darai quando diventerai famoso.»

Antonio guardò l’amico con gli occhi che gli brillavano, si avvicinò e l’abbracciò: «Gaeta’, si n’amico!»

«Vattenne, si non vuo’ recita’ dint’o Vesuvio!»

Senza dire altro, Antonio aprì uno spiraglio della porta, guardò se la madre era in finestra e poi fuggì via. Gaetano, con il cuore gonfio di gioia, sorrise e scosse la testa.

 

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La mattina dopo Gaetano stava ancora lavorando ai colletti del dottor Quagliarulo, quando si spalancò di nuovo la porta.

«O Madonna!» Gaetano sobbalzò sulla sedia.

Era di nuovo Antonio con un pacco sottobraccio.

«Gaeta’!»

«Ancora! Stavolta ti ci butto io dint’o Vesuvio!»

«Gaeta… è stato nu’ successo!»

Gaetano sorrise: «O’ vero?»

«Sì, e mi è venuto a cercare il direttore del Trianon per uno spettacolo!»

«Anto’, quanto si’ bello!» Esclamò Gaetano abbracciando Antonio.

«Gaeta’, ancora non ti posso pagare…»

«Ma figurati…»

«Aspetta… però ti ho portato questo, è un taglio di stoffa, magari lo puoi rivendere…»

«Dove l’hai preso?»

«Non ti preoccupare.»

«Anto’, guardami in faccia!»

«Non l’ho rubato, stai tranquillo… prendilo,» Gaetano prese il pacco, «ora devo andare… ci vediamo presto, ciao!»

Antonio aprì il solito spiraglio della porta per vedere se c’era la madre.

«Anto’.»

«Che c’è Gaeta’?»

«Buona fortuna.»

«Grazie.» fece sorridendo e scappò via.

Gaetano appoggiò il pacco sul tavolo e lo scartò. Dentro c’era uno scampolo di velluto azzurro, Gaetano ci passò una mano sopra: era morbidissimo. Poi, con la stoffa in braccio, si avvicinò alla vetrina per vedere meglio il colore alla luce del giorno. Era straordinario, non aveva mai visto un azzurro di quel genere, chissà dove l’aveva preso Antonio? Lo girò e lo rigirò più volte fra le mani sembrava quasi che la stoffa fosse cangiante. Gaetano pensò che l’avrebbe sicuramente rivenduta molto bene, ma non avrebbe mai immaginato cosa sarebbe successo di lì a due minuti. Come sollevò gli occhi dalla stoffa, incontrò la faccia di un distinto signore che, dalla strada, attraverso la vetrina, con una faccia strabiliata, divorava con gli occhi lo scampolo di velluto. Un secondo dopo il tizio faceva irruzione nel piccolo negozio. Gaetano si ritrasse spaventato. Il nuovo venuto poteva avere una settantina d’anni, era alto e distinto ed una gran barba bianca gli conferiva un aspetto sag­gio, ma ciò che intimorì Gaetano erano i suoi occhi: vivi, intelligenti, lucidi e penetranti come due spilli. Il tizio era eccitato, disse qualcosa in inglese poi, sempre guardando la stoffa, allungò le mani verso Gaetano che era rimasto fermo come un baccalà. Gaetano guardò la stoffa, poi il signore e, tremando come una foglia, gli porse lo scampolo. Il tizio, per parecchi minuti, continuo ad osservare la stoffa ad occhi spalancati poi, in un inglese stentato, disse semplicemente una parola: «Quanto?»

Gaetano si limitò ad allargare le braccia, il tizio tirò fuori un portafoglio e gli mise in mano due banconote. Gaetano, completamente frastornato, annuì e lo strano tizio se ne andò con il suo scampolo di velluto. Solo l’indomani, dopo aver cambiato le banconote, si rese conto che il tizio gli aveva pagato quella stoffa con una somma spropositata. Gaetano non seppe mai chi fu quel signore e nemmeno da dove fosse venuta quella strana stoffa e neanche ebbe modo di chiederlo ad Antonio, ormai impegnato con il suo teatro. Con gli anni la strana vicenda si perse tra le infinite storie della vecchia Napoli e nessuno avrebbe potuto mai più ricordare né Gaetano, né quello strano signore e nemmeno quella stranissima stoffa, ma nessuno avrebbe mai più dimenticato quel ventenne allampanato con il teatro nel sangue.

 

(Aldo Cirri)

  

Casella di testo: fu qui, nella via s. maria antesaecula, una
delle più antiche strade della vecchia napoli
che il 15-2-1898 nacque il principe ANTONIO DE CURTIS
il nostro TOTO’
egli fU comico impareggiabile per la sua mimica,
uomo di nobili sentimenti, poeta insigne, fra quelli
che l’italia può contrapporre ai maggiori artisti del mondo
il popolo del rione dedica
Le associazioni riunite di s. vincenzo ferredi posero 5-7-78

 

 

 

 

 

 

 

 

E Dio creò la donna

 

Dio creò l'uomo a sua immagine;

a immagine di Dio lo creò;

maschio e femmina li creò.

(Genesi 1, 27)

 

Sei giorni! Sei giorni di lavoro assiduo e faticoso e ancora non era sicuro che l’opera fosse compiuta a regola d’arte, il controllo qualità non esisteva ancora e nemmeno esisteva chi gli potesse rilasciare un qualche tipo di certificazione. Sì, era pur vero che, in ogni caso, tutto in lui era perfetto e onnipotente, ma la sua perfezione copriva tutti i campi e, se si sentiva insicuro, perfino la sua insicurezza era perfetta! Non era ancora finito il sesto giorno che ancora rimuginava tra se, più ripensava a quello che aveva fatto, più si convinceva che c’era ancora qualcosa che doveva fare. Qualche millennio prima aveva avuto una discussione con Manitou, Hallah e Giove su come impostare la creazione, ma era stato tempo perso: uno voleva le grandi praterie, uno insisteva per aver ragione a tutti i costi e l’altro si incazzava continuamente, conclusione: ad ognuno la sua creazione! La storia avrebbe dimostrato chi aveva ragione e chi torto. Una cosa era certa: in futuro si sarebbe guardato bene dal discutere con gli extracomunitari, vedevano le cose troppo a modo loro. Chissà forse non avrebbe dovuto licenziare Lucifero, in fondo era l’unico ad avere le idee chiare, si ripromise di prendere in considerazione la possibilità di richiamarlo nell’amministrazione. Sbadigliò, si stiracchiò e si assestò sul trono. Decise di concedersi un sonnellino, era stanco e si addormentò, ma la pace durò poco: 

«Papà.» Adamo, la sua ultima fatica, stava diventato inopportuno e rompiballe.

«Che c’è?»

«Papà io mi sto rompendo!»

«Uff… fatti un giro nell’Eden.» Cominciava ad avere dubbi sul fatto di aver creato l’uomo. Forse avrebbe fatto meglio a dare la prerogativa sulla terra ai tapiri o alle meduse, almeno stavano zitti! Si ripromise di farlo da qualche altra parte dell’universo.

«Papà.»

«Si?»

«Posso andare a mangiare le mele?»

«Con tutta la frutta che ti ho fatto, proprio di mele ti è venuta voglia?»

«Perché?»

«Perché non puoi.»

«Perché?»

«Perché ti fanno male, contengono il peccato originale.»

«Il che?»

«Il peccato originale è… una specie di verme, non sapevo dove metterlo e l’ho messo nelle mele, contento?

Adamo si mise tranquillo. Accidenti, doveva inventarsi qualcosa per quella sua creatura, era troppo solo e l’Eden era troppo grande per lui. Doveva escogitare qualcosa, fare un altro uomo non gli sembrava il caso, doveva fare un animale, un essere che integrasse Adamo, che gli fosse complementare e che, allo stesso tempo potesse fargli compagnia e non solo morale.

Era stanco, ma si decise: «Adamo, vieni qui mi serve una parte di te.»

Adamo balzò in piedi spaventato: «Ma che sei diventato matto?

«Calmati, stai tranquillo, non sentirai niente.»

«E che… ti serve?»

«Una costola.»

«Non potresti prendermi i capelli, stanno diventando lunghi e cominciano a darmi fastidio.»

«No, mi serve una costola!»

In effetti la costola era la prima cosa che gli era venuta in mente (chissà perché) e ora si era impuntato e non voleva darla vinta ad Adamo.

«Aspetta un attimo, non è che cominci con una costola e poi...»

«Preferisci darmi una costola o assaggiare l’ira di Dio?»

«Questo è un ricatto!»

«Chiamalo come ti pare, comunque o mi dai una costola o la donna non te le faccio!»

«La che?»

«La donna.»

«La donna? E che è?»

Già, che cosa era? Quel nome gli era venuto così, una trovata della sua onnipotente mente; tentò di raffigurarsi il risultato finale, be’ non era male! Allungò le mani nel tentativo di descriverla ad Adamo con dei gesti ma, ripensandoci, si fermò.

«E... tu la vedrai!

«È una cosa che si mangia?»

«Ma va!»

«E allora che ci faccio?»

« E... ti farà bene vedrai! Calmerà la malinconia meglio della camomilla !

«Allora si beve?» 

Fece per dire qualcosa, ma si fermò per non perdere la calma.

«Lasciamo perdere... vieni qui. Mettiti qui che ci penso io.»

«Ch... che mi fai?»

Gli mise una mano su di un fianco.

«Ah!»

«Ma se non ti ho nemmeno toccato.»

«Io ho sentito male.»

«Ma va! Lasciami fare.»

Gli passò una mano due o tre volte davanti agli occhi.

«Che fa...fai?»

«L’anestesia.»

«La nestesia? E che è?»

«Non lo so, non l’hanno ancora inventata. Zitto!

Adamo impiegò tre secondi netti ad addormentarsi e quattro a risvegliarsi. La costola impiego solo un secondo ad uscire. La prima cosa che vide, una volta ripreso conoscenza, fu la costola che gli era stata tolta.

«Ah!»

«Che urli, è solo un osso.»

Adamo balzò in piedi e fece per fuggire.

«Vieni qui.»

«No, no tu vuoi un’altra costola!»

«No, vieni qui!»

Adamo si avvicinò guardingo. Fu osservato, misurato, controllato, verificato.

«Questa volta non voglio fare errori, aspettami qui»

Adamo si ritrovò solo: “Ma cosa diavolo ha in mente papà? Uh… accidenti, ho nominato il diavolo, speriamo non mi abbia letto in testa!”

Passarono pochi minuti. Quando riapparve non era solo, vicino a lui c’era un animale stranissimo. Adamo lo guardò esterrefatto.

«Adamo, questa è la donna! Ti piace?»

Adamo la osservò a lungo, tutto si sarebbe aspettato meno che di trovarsi davanti quella singolare creatura, sì certo, era simile a lui, aveva due gambe due braccia, due occhi, una bocca un naso, ma… accidenti… era…era… meglio! La donna lo guardò quasi scocciata, come se l’avessero disturbata per questioni secondarie e di poco conto e squadrava Adamo dall’alto in basso come un pezzente. Adamo, finiti due giri di ricognizione intorno al nuovo animale, si fermò di fronte ad osservarle i seni. Guardò il suo petto completamente piatto poi guardò di nuovo quello dell’animale.

«Papà, cosa sono questi?»

«Questi sono i seni che serviranno ad allattare i tuoi figli.»

«I miei figli? Ma che devo fare anche quelli?»

«No, quelli li farà la donna.»

«Ah, meno male... cominciavo a preoccuparmi, altrimenti qui, a forza di levarmi le costole divento un polpo!»

Adamo guardò ancora la nuova venuta: «Ehm… se io sono Adamo… lei sarà Adama?»

«Mmmm, va bene, inventeremo anche la grammatica e lo stile, per ora ti basti sapere che si chiama… vediamo… diciamo Eva! Va bene?»

«Se lo dici tu.» Adamo era poco convinto.

«Bene io ora vado a riposarmi! Ora tu hai la donna, fate conoscenza e vedi di non rompermi le scatole!»

Uno sbuffo di fumo bianco e Adamo rimase solo. Per un bel pezzo continuò ad osservare lo strano animale, finché non notò che lì davanti, proprio lì, una grossa foglia di fico copriva interamente la zona. Si avvicinò con cautela e, con due dita, fece l’atto di alzarle la foglia di fico. Il ceffone sulla mano rintronò per tutto l’Eden.

«Hai, ma che sei matta?»

«Le mani tienile a posto!»

«Guarda che papà t’ha fatta per me.» Azzardò Adamo massaggiandosi la mano.

«Vedremo.»

«Che carattere... io volevo vedere se tu ce l’avevi più grosso di me.

«Non ce l’ho mica!»

«Non ce l’hai?» Era esterrefatto.

«No.»

Adamo si rivolse verso l’alto urlando: «Papà, papà! Hai sbagliato, ti sei dimenticato il... il... » Adamo rimuginò tra se cercando la parola giusta «... o come cazzo si chiama!»

Eva alla fine si stufò e si sedette sul trono.

«Oh ! Ma tu sei matta? Se arriva papà s’arrabbia!»

Eva, mettendosi a sedere, accavallò le gambe, la posa cominciava a fare un certo effetto ad Adamo che ricominciò a guardarla e a girarle intorno: «O, ma lo sai che sei... sei... uff non mi viene la parola!» Ma la curiosità durò poco Adamo, non conoscendo né il sesso e né il peccato, si stancò subito «E ora che si fa?»

Eva lo guardò con commiserazione.

Sai giocare a rubamazzo?... No?... a briscola?» Era perplesso «Sai cosa si fa, si va a cogliere la camomilla, eh?»

Eva lo guardò scuotendo la testa.

«No eh?... Ma che cavolo... era meglio se papà mi faceva la televisione.»

Improvvisamente, a poca distanza dai due, preannunciata da un rumore sordo, esplose una nuvola di fumo, questa volta di colore rosso. Adamo ed Eva fecero un balzo e si ripararono dietro il trono. La nuvola si diradò subito e apparve un personaggio stranissimo tutto vestito di nero con una barbetta a pizzetto e due piccole corna sulla sommità della testa. Puzzava di zolfo lontano un miglio, in mano aveva un paniere colmo di mele.

«Porc... Lucifero!»

«Chi è?» Domandò Eva.

«Era un collaboratore di papà, lui l’ha licenziato... sarà incazzato nero!»

Lucifero si comportava come un venditore ambulante di frutta e verdura «Mele! Mele! Mele fresche! Son rosse donne!»

«Ma che vende mele qui nell’Eden?»

«Non lo so, forse non ha trovato un lavoro migliore.»

Eva si alzò come se le fosse venuta un’idea: « Scusi ortolano.»

«Dica signorina.»

«Da dove provengono queste mele.»

«Sono nostrane, abbiamo uno dei migliori meli di tutto l’universo, frutta così non la trova neanche al purgatorio!» Disse Lucifero porgendo una mela alla donna.

Eva, con gli occhi che le brillavano, prese la mela che il diavolo le porgeva e la sbatté in mano ad Adamo.

Adamo la prese, poi guardò Eva perplesso e per niente convinto: «Ah, una mela,» poi rimuginando fra se, «...boh... tutto qui? Io mica mi diverto.»

Adamo dette un morso alla mela e qui cominciarono i guai per l’umanità. Fu come se avesse ingurgitato mezzo chilo di adrenalina: lì per lì non accadde niente poi cambiò espressione, cominciò a respirare forte, diede altri tre o quattro morsi al frutto infine qualcosa dalle parti dell’inguine si mosse e gli ormoni entrarono in orbita. Ormai completamente ingrifato si voltò verso Eva guardandola avidamente, la mela gli cadde di mano e con le mani ad artiglio cominciò ad avvicinarsi mugolando. La donna emise un urletto, poi cominciò a spaventarsi e, subito dopo, a fuggire via inseguita da Adamo. L’inseguimento fu breve: i due scomparvero dietro un cespuglio e, poco dopo, gli urli di Eva si trasformarono in gridolini, poi in sospiri ed infine in gemiti di piacere. Lucifero stava osservando compiaciuto la scena quando, ad una decina di passi da lui, preceduto da una nuvola di fumo bianco, apparve il responsabile di tutta la faccenda:

«Lucifero, sono andati via?» Domandò guardandosi intorno.

«Vieni, vieni.»

«Ha funzionato la mela?»

«Tu che dici?» Disse indicando il cespuglio da cui provenivano mugolii sospetti.

«Meno male!»

«Scusa eh? Ma perché tutta questa manfrina della mela? Non era più facile spiegarglielo?

«Come no! Se dovevo spiegarglielo io come doveva fare, come minimo mi ci voleva mezzo milione di anni di evoluzione! E poi d’ora in poi... sai che c’è?... Saranno cavoli loro! Io e te possiamo prenderci un paio di miliardi di anni di vacanza!»

I due, sogghignando, si presero sottobraccio e, dopo un secondo sparirono dentro una nuvola comune, la cosa strana fu che i colori delle nuvole dei nostri due personaggi si mischiarono e la loro uscita di scena dalla vita dell’uomo fu un nuvola di un tenue colore rosa.

Dal cespuglio provenivano gemiti sempre più affannati.

 

(Aldo Cirri)

 

 

Il sonno dei mari

 

La strada impazzì. Non riuscì a percepirne l’istante esatto e nemmeno a capire il senso e la dinamica del moto. L’auto si sollevò dalla strada nello stesso momento in cui sfiorò un autobus che proce­deva in senso inverso. Si alzò come un deltaplano dal lato del guidatore e, per una frazione di se­condo, il finestrino laterale si trovò alla stessa altezza di uno di quelli dell’autobus. Lei ebbe appena il tempo di vedere da vicino il viso di un uomo che la guardava con gli occhi sbarrati. Poi l’auto proseguì il suo moto verso l’alto. La visione dell’uomo sparì in un turbine di grigio e di azzurro e l’intero universo divenne una trottola colorata. Nell’abitacolo la ragazza osservava tutto con stu­pore, quasi con distacco. Il tempo rallentò. La realtà assunse toni lontani e soffusi, i suoni si fecero ovattati. Dopo un tempo infinito l’auto sbatté al suolo. La consapevole violenza del terrore bruciò tutti i suoi pensieri ed un dolore senza nome violentò ogni fibra, ogni muscolo del giovane corpo. Ma non finì lì. L’auto proseguì la sua danza rotolando su se stessa e sbattendo più volte sull’asfalto, ad ognuno di quei colpi un chiodo arroventato penetrava nelle carni, vuotando i polmoni della poca aria che riuscivano ad assorbire. L’ultimo colpo fu il meno violento, ma il più devastante. L’auto cadde rovesciandosi con tutto il suo peso sul tettino dell’abitacolo schiacciandolo. Una sezione di metallo si piegò a taglio formando una rudimentale lama che le si abbatté sulla testa. Il metallo aprì un solco nel cuoio capelluto e vi penetrò per quattro millimetri, attraversò la pelle e poi l’osso fer­mandosi alla distanza di un atomo dalla materia grigia. Molte sinapsi del cervello cessarono di fun­zionare, altre ne presero il posto, ma alcune zone rimasero danneggiate. Il buio e l’oblio arrivarono quasi come una benedizione. Passò ancora del tempo, lei non avrebbe saputo dire quanto ma, so­prattutto, non avrebbe saputo dire “quale”. Che tempo era? La vita, la morte, l’eternità, il paradiso, l’inferno? Non sentiva dolore. La nebbia color fango che le fluttuava intorno lasciava solo interro­gativi. La ragazza si svegliò. Ma era veglia? No. Si guardò intorno: non vide se stessa sul lettino d’ospedale, come aveva letto in qualche libro sulle esperienze post-mortem e nemmeno vedeva quel lungo tunnel che, nelle stesse esperienze, e secondo alcune teorie psicanalitiche, faceva rivivere il ricordo ancestrale dell’uscita dall’utero materno. Non c’erano nemmeno i coloratissimi paesaggi del mondo di “Al di là dei sogni” e nemmeno l’antica oscurità di un limbo dantesco. Quello che aveva davanti a se era un normalissimo mare e lei era seduta su di una normalissima spiaggia di sabbia. Si alzò e si guardò intorno. La spiaggia era deserta. Dietro di lei, oltre le dune, una fitta boscaglia chiudeva ogni visuale. L’acqua era appena increspata ed il sole alto nel cielo. Le sembrò un posto conosciuto, rovistò nella sua memoria, ma non riuscì a dargli un nome. Osservò ancora il luogo. Lentamente la leggera sensazione che aveva provato all’inizio cominciò ad farsi spazio tra i suoi sensi, c’era qualcosa di strano in quell’acqua era come se bollisse, come se brulicasse di vita, ma non era lo sfrigolio di un branco di pesci che saltava, piuttosto una sorta di luccichio, una specie di frastagliarsi in un’infinità di microscopiche macchie di colore, come se quel mare volesse comuni­care qualcosa all’universo. La ragazza non aveva mai visto nulla del genere e a nulla riusciva a pa­ragonare quella visione. Si avvicinò all’acqua, vi immerse la mano e sentì la vita! Non caldo, freddo, bagnato, ma la vita! Sapeva che era vita quella che sentiva, ma non sapeva perché e come le fosse potuto venire in mente.

«Bello eh?» la voce alle sue spalle la fece sobbalzare. Si voltò, ad alcuni passi un bambino la guardava sorridendo. Poteva avere circa sei anni, indossava una maglietta, aveva i calzoni arrotolati al ginocchio ed era a piedi scalzi.

«Che... posto è questo?»

Il bambino si guardò intorno, poi scrollo le spalle senza dire nulla.

«Tu abiti qui?»

«Non lo so.»

«Tu non sai se abiti qui?»

Il bambino scosse la testa.

«Come ti chiami?»

Il bambino scosse di nuovo la testa. Lei si sentì sempre più confusa, poi le venne un’idea: «Che cos’è quello?» domandò indicando il mare.

Il bambino sorrise: «Quello sei tu!»

«Co.. come?»

«Sì, è la tua rinascita.»

«La mia rinascita? Non capisco.»

Il bambino si sedette e guardò il mare. «Tu sei qui perché ti è accaduta una cosa rarissima,» le parve che la voce del bambino avesse assunto una di­versa tonalità, «vedi, nella vita reale le persone vedono la realtà modificata, distorta dalle paure, dal modo sbagliato di sentire la vita....» lei si rese conto che il bambino cresceva a vista d’occhio «dal ripetersi di eventi dolorosi che girano su se stessi come una vite senza fine, con rarissime possibilità di interrompersi, di spezzarsi...» ora aveva circa la sua età, «una realtà che l’uomo ha allontanato da se stesso, abbandonando quel briciolo di consapevolezza che l’avrebbe portato alla libertà dell’anima.» Ora era un uomo adulto. La ragazza si sentì frastornata, ma avvertì che qualcosa, il bar­lume di una luce si stava facendo strada dentro di lei. L’uomo ora era di fronte a lei con i piedi den­tro quello strano mare e, come il ribollire di una luce liquida, le acque sembravano prendere vita quando toccavano le sue gambe.

«Ma... io che c’entro?»

L’uomo sorrise: «Gli uomini per conseguire questa consapevolezza, devono compiere un lungo percorso, pulire la mente, prendere coscienza del proprio corpo, affinare i propri sensi, liberarsi di un’infinità di errori. Un cammino pieno di difficoltà e di delusioni. Trasformare la propria mente per raggiungere la consapevolezza è un viaggio che può durare molte vite.»

Lei era ancora perplessa: «Che cosa mi è accaduto?»

Sul viso dell’uomo cominciarono a disegnarsi le prime rughe: «Tu rientri in uno di quei rarissimi casi in cui tutto questo processo avviene per un evento straordinario.»

«Non capisco.»

«L’incidente che hai subito ti ha provocato un trauma alla testa innescando un meccanismo...» l’uomo cominciava ad invecchiare, «che ha tolto dai tuoi occhi e dalla tua mente, tutti i limiti, tutte le paure e tutti i condizionamenti che ti impedivano di vedere la realtà in piena consapevolezza, senza dover percorrere una lunga strada di discipline mentali e di meditazione.»

«Cosa significa?»

L’uomo era ormai vecchio: «Che tu hai espanso la tua anima, hai raggiunto la piena consapevolezza ed ora sei piena del flusso eterno che scorre nell’universo.»

«Ma io mi sento sempre la stessa!»

Il vecchio sorrise: «Vedi, gli uomini sono come dei mari, pieni di vita di movimento, di flussi, di maree, di nascite di morti, solo che pochissimi di loro lo sanno. La loro coscienza è ferma, immobile, un sasso gettato dentro forma solo dei semplici cerchi che si disperdono. Que­sti mari hanno bisogno di capire che sono vivi, hanno bisogno di risvegliarsi e di comprendere che un sasso, una piccola onda possono rimuovere tonnellate d’acqua, e far risvegliare la vita che hanno dentro. Tutto questo è avvenuto in te in una frazione di secondo, grazie a quattro millimetri di me­tallo!»

L’uomo era vecchissimo e si stava piegando su se stesso.

«Ma tu...?»

«Io ho finito il mio compito.»

«Ma... tu chi sei...?»

«Io sono il tuo vecchio “io” che muore e che con la sua morte va a risvegliare il tuo mare.»

«Ma io cosa debbo fare?» chiese lei con apprensione.

Il vecchio sorrise: «Stai tranquilla, lo saprai.» Si piegò all’indietro, come se volesse sedersi, senza fare rumore affondò nel mare. Le acque si animarono immediatamente e lo sfrigolio di luce liquida, che prima brulicava intorno alle gambe dell’uomo, si sparse a velocità iperbolica e in un attimo raggiunse l’orizzonte. Improvvisamente lei capì e sorrise, cominciò a camminare nell’acqua, quando anche la testa fu immersa nel liquido, l’universo esplose in un fantasmagorico fuoco di artificio e lei si risvegliò.

Era distesa sul lettino di ospedale e chino su di lei stava un uomo in camice con gli occhi sbarrati: «Mio Dio, è impossibile!»

Un altro medico si avvicino e spalancò la bocca: «M... ma c’era fuoriuscita di materia grigia, il coma era profondo!»

Lei li guardò, allungò una mano verso il medico più vicino e gli posò le dita sulle labbra. Per un at­timo l’uomo si irrigidì, poi il viso si distese e le sorrise, sorrise anche lei e in un attimo capì quale sarebbe stato il suo compito futuro: avrebbe insegnato ai suoi simili ad essere se stessi, avrebbe insegnato loro che cos’era la consapevolezza, avrebbe insegnato loro il sentiero per la felicità.

 

(Aldo Cirri)

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