Il contrasto

 

Non riesco a toglierle gli occhi di dosso. Ho sposato la donna più graziosa del pianeta e non riesco a toglierle gli occhi di dosso. La guardo mentre cucina, quelle quattro cazzate surgelate di cui è sempre provvisto chi crede che leggere un buon libro sia un passatempo migliore che cucinare. Butta quella roba in padella e accende il fornello, poi mangia, in piedi, senza nemmeno sedersi, canticchiando vecchi motivetti da balera. La televisione accesa a parlare all’aria. Non le dà ascolto. Un sottofondo rumoroso che ci fa sentire più soli che mai ma riempie il silenzio di una casa vuota. E lei canticchia. Leggermente stonata. Sempre molto graziosa. Sembra quasi felice.

Sembra.

Fuori dalla finestra il sole pare saperlo, irradia la cucina attraverso le tende azzurre imponendo la sua luminosa presenza. Rischiara Sasha. Ancor più graziosa. A lei piace il pomeriggio, e si vede. Io preferisco di gran lunga il mattino, così ricco di buoni propositi e macchiato di sogni. O incubi. Non cambia niente. Mi piace comunque. Sasha dice che il mattino è duro da superare, che è il pomeriggio il cuore della giornata, e che la sera ne è lo spegnimento. Nascita, vita e morte. Lei preferisce la vita. Io preferisco la nascita. C’è sicuramente anche chi preferisce la morte. Di certo non io.

Dopo pranzo farà una doccia. Lo fa sempre. Ed io la seguo lì dentro, nell’unico posto dove non canticchia. Ed è strano, la gente ama cantare quando è là sotto. Lei dice sempre che preferisce godersi l’acqua pulita che le scende lungo la pelle, che fa scorrere via il sudore, i batteri, microrganismi vari.

Si può dire sia una nascita anche questa. Ecco perchè andiamo così d’accordo io e lei. In fin dei conti amiamo le stesse cose, ma riusciamo a cogliere le magie da punti di vista differenti. Questo arricchisce e rende lieti. Quella rinascita purificatrice può unirsi poi al sesso, una cosa affascinante. Saprai che non è così bello farlo lì sotto, molto meglio un comodo e largo letto, parecchio più funzionale. Ma con l’acqua che ti scorre addosso, mentre ti avvinghi a lei, così scomodo, così artefatto, non si può nemmeno chiamarlo fare l’amore. Eppure ha il suo incanto. Tutto quell’amore che scivola giù per lo scarico, a risplendere nelle fogne. Adoro l’idea del contrasto. Una vita di ossimori. Una vita di amorosi ossimori. Fare l’amore in uno scantinato maleodorante, baciarsi in un vicolo buio e malfamato, ecco cosa mi piace. Cosa ci piace. Un matrimonio che godesse del contrasto, quel che volevamo e avevamo costruito.

Quello di cui continuiamo a non gioire, perchè sono sotto la doccia con lei, la guardo, la osservo, la ammiro. E lei no. Non mi guarda, non mi osserva, non mi ammira. Nemmeno mi sente. Perchè io sono l’uomo morto e lei la moglie viva. Lei è la vedova. Io il martire. Non più marito e moglie, ma amanti in due dimensioni differenti. Il contrasto. Bello eh?! Ma lo adoro un po’ meno ultimamente.

Oggi è un anno. Compio un anno di questa nuova non vita. Li conto i giorni. Li contavo da vivo e continuo a farlo adesso. Il miglior modo per non soffrire il passare del tempo è celebrarlo. Può sembrare stupido continuare a farlo anche quando il suo scorrere non rappresenta più alcun pericolo, probabilmente lo è, ma sono un romantico. Lo sono ancora. Lo sono stato fino all’ultimo istante da vivo, quando trotterellai nel campo per raccoglierle quel fiore. Un cypripedium calceolus. O scarpetta di venere. O pianella della Madonna. Chiamalo un po’ come cazzo vuoi, amico. L’ho fiutato. L’ho sentito. Li odio i fiori, non ne apprezzo nè la forma nè l’odore. Giuro. Eppure possiedo come un sesto senso che me ne fa trovare a centinaia. Il contrasto. Quello che dominava su noi. Compreso il fatto che lei amasse i fiori come nient’altro al mondo e avesse sposato me che non ne capivo la magia. Eppure ne raccoglievo per lei. Ogni giorno. Erano la mia tacca sul tempo che passava. Quel puntino giallo, luminoso, in mezzo al verde omogeneo di un campo di frumento, capii subito che si trattava di una scarpetta di venere. Un fiore che non cresce certo in mezzo ai campi. Eppure era lì. Lì a gridarmi di coglierlo. Il suo fiore preferito... No. Non lo era. Nemmeno ne conosceva l’esistenza, probabilmente. Ma mi piace pensare che è così raro trovarne uno nella nostra zona che quello sarebbe diventato il favorito fra la sua collezione. Sarebbe stato molto romantico se quel bocciolo giallo, causa della mia morte, meta del mio sentimento, fosse diventato il suo preferito, nonostante tutto. Sempre per la legge del contrasto. Ma non andò così. Non lo ricevette mai. Inciampai correndo a prenderlo, una talpa, un sasso, non lo so. Inciampai. Battei la testa. Svenni. In mezzo al campo, reso invisibile dal frumento. Poi la mietitrebbiatrice passò a fare il suo lavoro, spalancai gli occhi quando la barra falciante mi affettò una gamba. Ebbi giusto il tempo per pensare che il frumento dovrebbe ringraziare il cielo per non possedere centri del dolore. Poi finii nella macchina. E mentre le lame mi spingevano lì dentro vidi quel fiore giallo schernirmi. Ed ora eccomi qua.

Non c’è un regno dei vivi e un regno dei morti. Non credo, perlomeno. Non c’è un piano astrale in cui noi altri ce la raccontiamo e girovaghiamo senza meta. Mai visto un’anima. Solo Sasha. Mi trovai già qui, immediatamente dopo la fine, nella nostra casa. Piansi da solo quando non vedendomi tornare lei cominciò a preoccuparsi, e piangemmo insieme quando la notizia della mia morte le giunse al telefono a stroncarle ogni barlume di speranza. Ci disperammo sempre insieme da lì in poi, non la abbandonai mai. A volte abbiamo riso. Molto più spesso abbiamo guaito. Ma sempre insieme. Fatta eccezione per quella prima volta, quando fu solo la consapevolezza a fare la differenza, abbiamo sempre fatto tutto insieme. Ed è bello. È più gaio piangere in due che ridere da soli.

E ti dirò, il contatto manca, mi mancava prima e mi manca tutt’ora, ma non è quella la cosa peggiore. Perchè il fatto di provare emozioni insieme e di poterle essere vicino, nella gioia e nel dolore, pur non potendo beneficiare della sua setosa pelle contro la mia, è una cosa così appagante che saprei accontentarmene. Ma, purtroppo, non siamo davvero insieme. Perchè lei non lo sa. Lei non sa un cazzo di niente. Io la vedo, la ammiro, condivido i suoi sentimenti e ne prendo parte. Lei pensa di essere sola. Ecco qual’è la cosa peggiore. La sensazione più orribile che abbia mai provato, in vita e da morto, vivere emozioni forti insieme alla persona che ami, mentre lei non ne sa nulla.

L’uomo morto e la donna viva. Il contrasto. L’uomo che può vedere e la donna che non può farlo. Sempre il contrasto. Una morte viva e una vita morta. Oh, ma che bell’ossimoro. Oh, ma che bell’antitesi. Un non marito che non vuole abbandonarsi alla fine, testardo nel restare con la sua non moglie che la fine non l’ha nemmeno presa in considerazione. Almeno fino ad oggi. Cazzo...

C’è una cosa, forse l’unica, di cui io riuscivo a godere e lei no. Il mio permanere in quella casa. Le mie fotografie, le nostre fotografie, sempre al loro posto a confermare che non solo Sasha non riesce a dimenticare, ma che nemmeno lo vuole. Le mie Camel ancora sul davanzale, da un anno, un anno oggi, ad aspettare di essere fumate da nessuno. Le mie scarpe, accanto al letto, ad attendere che il loro padrone si svegli da un sonno eterno. Mi piace tutto questo. Non essere dimenticato. Può sembrare egoistico. E lo è. È terribilmente egoistico. Ma non credere che siccome uno muore diventa una persona migliore. Non voglio che Sasha si rifaccia una vita, che trovi un altro uomo e che tiri su famiglia. Non voglio. Le auguro tutto il bene del mondo, davvero, ma con me, vivo o morto che sia, sempre e comunque con me. Tutto ciò è egoistico come lo sarebbe per lei voltare pagina. Mi schiaccerebbe sotto quel foglio, e ad ogni giorno la carta si accumulerebbe sopra di me, premendomi sul fondo. Sempre più.

So già quello che stai pensando, ed effettivamente è vero, racconto storielle a me stesso. Ma cerco di convincere me, non te, ricordalo. Il suo rifarsi una vita non sarebbe egoistico, perchè i morti non vedono e non soffrono. Di solito. Lo farei se fossi in lei, o quanto meno ci proverei. Ma sono in me, sono io. Non lei. Ed io voglio rimanere in quella casa, con le mie foto, le mie Camel, le mie scarpe. Voglio rimanere con lei. Ma il tempo a volte non è solo un nemico, non è solo vecchiaia, non è solo occasioni perse, a volte è guarigione. E Sasha sta guarendo. Questa mattina, trecentosessantaseiesimo giorno dal mio decesso, si è svegliata, graziosa come sempre; si è masturbata, pensando a me, senza dubbio, sensuale come sempre; poi ha guardato la mia foto sul comodino, piangendo, nostalgica come sempre. E l’ha rivolta verso il basso. Clack. Girata. Ribaltata. Fredda e decisa come mai. Poi si è alzata, ha messo su il caffè, si è affacciata alla finestra e guardando le eterne Camel sul davanzale ha sorriso, come sempre. Poi le ha afferrate, ha socchiuso gli occhi, e le ha gettate in strada.

È l’inizio della fine.

Sto per essere dimenticato. Sto per morire davvero.

Per me quest’anniversario era quasi un evento da festeggiare. Voglio dire, un anno di amore oltre la morte, oltre la presenza. Un anno intero di sentimento che si nutre da sè. Non pensavo potesse esistere qualcosa di così forte, da perdurare nonostante nessuno getti legna sul fuoco, nonostante non ci siano atteggiamenti quotidiani e parole banali a tenere acceso il tutto. Pensavo oggi fosse un evento unico, quasi felice, nella sua macabra essenza.

Per Sasha non è così, evidentemente. Per lei quest’oggi ha probabilmente significato il momento di voltar pagina. Di ricominciare. E, in effetti, come potrei biasimarla? È una donna viva, e come tale può godere di privilegi che a me sono negati. Può e vuole goderne. Come posso non essere contento per lei? Ricomincerà a vivere. E io ricomincerò a morire. Ma devo sforzarmi di guardare al di là, devo capacitarmi del fatto che non è con gelosia che ci si deve porre alle vite degli altri, ma con pura condivisione. Condividere la sua futura, ritrovata felicità, anche se non potrò farne parte. Se non riuscirò a fare questo non posso nemmeno dirmi innamorato. Non posso nemmeno definirmi marito. Neppure marito morto sarei. Sarà un dolore felice l’essere escluso dal mondo dei vivi. Dal mio matrimonio. Un dolore felice. E questo è un bel contrasto. Questo è un bell’ossimoro davvero. L’antitesi più incantevole, più giusta, che riesca ad immaginare.

E sai che ti dico? Che è ora di piantarla con questo squallido soliloquio. Che ho vissuto la mia morte e che è giunto il momento di mettere la parola fine alla mia presenza fuori luogo. Alla mia esistenza, da morto o da vivo che sia. Trentaquattro anni di vita e uno solo di morte. Dovrei esserne contento. Invece non ci riesco.

Questo è il giorno in cui scomparirò davvero. Lascerò un vuoto identico a quello sul davanzale, dove la polvere ha attecchito dappertutto, eccezion fatta per quel piccolo rettangolino dove le Camel hanno protetto la luminosità della vernice. Per un lunghissimo anno. E quel che rimane ora è solo un punto più raggiante degli altri. Dove, da oggi, la polvere comincerà a posarsi. E sarà questione di tempo perchè anche quel piccolo rettangolo diventi grigio. Un grigio solo leggermente meno sporco. Che ogni tanto verrà spazzato via con uno straccio, ma che non tarderà a ricoprirsi di polvere di nuovo. Ma non c’è da rammaricarsene. Ho fatto quel che dovevo. Ho goduto della mia vita e della mia morte. La mia parte è finita. La mia vita è finita. La mia morte conclusa. Perchè nemmeno morte posso definire quel che sta per accadermi. Quel che sta per succedermi è il tanto declamato nulla di cui nemmeno sappiamo dare una definizione. Quel vuoto che non riusciamo ad immaginare. Il nome a cui cercare di dare una forma fa venire mal di testa. Quello sarò.

E allora ciao, Sasha. Ciao amore.

Ciao esistenza.

Ti ascolto per l’ultima volta canticchiare mentre metti la padella sul fuoco. E sei così stonata ora che sono distante. Ed è così patetica quella roba surgelata.

Ora.

Ma ti auguro di poterli condividere, quei quattro cubetti ghiacciati. Di poterli scongelare per qualcuno. Qualcuno che non possa solo stare a guardare la tua solitudine. Qualcuno che possa mangiarsela in un boccone. Insieme a quella robaccia. Un’amica. Un collega. Un amante. Anche un marito, se ti sembrerà il caso. Ti auguro ogni bene, oh donna viva. Di goderti ogni minuto del tempo che ti rimane.

Goditela. Goditela davvero. Fallo anche per me. Perchè la vita non è eterna. E non lo è nemmeno la morte. Non c’è contrasto fra le due cose. Entrambe ci sfuggono via quando meno ce l’aspettiamo. Come un fiore giallo da regalare. Come un pacchetto di Camel gettato in strada. Come l’amore.

Perchè nulla è eterno.

Nulla è in contrasto con il tempo.

E allora celebralo.

Celebra ogni respiro.

Ed ogni rantolo.

 

(Gianpio Cirlo)

 

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