Pane & Sangue
Ernesto ed io ci amavamo sinceramente.
Quando lo conobbi ero poco o più di un’adolescente. Né mia madre, né mio padre, infatti, erano mai riusciti ad evitare che frequentassi le mie compagne di corso senza che badassi alle disponibilità monetarie delle loro famiglie, come essi stessi, invece, avrebbero voluto.
Le cose andavano così all’epoca! Alle figlie di “buona famiglia”, come me, veniva continuamente intimato di stringere amicizia con ragazze appartenenti al medesimo rango sociale.
Mio padre era il padrone dello stabilimento ***, dove lavorava Ernesto, il fratello di una mia compagna di corso. La loro famiglia era gente umile, di quelle in grado di conquistarti con il semplice sguardo, che non si lagnavano della propria condizione.
Con lui fu un colpo di fulmine. Sin da quando sua sorella me lo indicò per la prima volta, mi venne rivelato che lavorava per il nostro stabilimento e ciò, alle mie orecchie, suonava come una condanna, poiché non potevo farmi illusioni. Ognuno dei due doveva rimanere al proprio posto! Ma a me il problema della stratificazione sociale non si era mai posto come un ostacolo. Volevo possedere Ernesto a tutti i costi.
Sua sorella, un paio di volte, aveva anche tentato di combinarci un incontro segreto, ma il suo rispetto per mio padre non avrebbe mai potuto dargli il coraggio anche solo di sfiorare la mia delicata pelle. Né io, né lui, avremmo mai potuto immaginare che, invece, un giorno egli avrebbe trovato nei suoi ideali la forza di ammazzare quel timore riverenziale.
Io sentivo che mi amava… glielo leggevo negli occhi… lo sapevo.
Quelle rare volte in cui ero io ad avvicinarmi nel loro quartiere per potermi concedere qualche ora di svago con sua sorella, captavo dei segnali talmente evidenti, che non potevano appartenere ad uno di quei miei mondi immaginari.
Se io e lei chiacchieravamo sul muretto situato proprio di fronte casa loro, sentivo la sua presenza nei dintorni e i suoi occhi puntati su di me, nonostante ciò non fosse visibile a occhio umano.
Quando invece passeggiavamo nel cortile del quartiere, poteva capitare che i nostri occhi si incrociassero, riflettendosi così i nostri sguardi.
Fortuna volle che mai nessuno se ne accorgesse. Era come se ci fosse un tacito segreto tra noi due.
Questo però non mi bastava. Anzi, acuì la mia disperazione, perché non potevo parlargli, non potevo toccarlo e, ne ero convinta, mai avrei potuto.
Quello non era un periodo difficile solo per me, ma per l’Italia tutta.
La Grande Guerra imperversava, di lì a pochi mesi la disfatta di Caporetto avrebbe rievocato i significati di dolore e lutto.
La fustigazione che la mia nazione partoriva in quegli anni era terribile. Troppo!
Io ero ben al corrente di tutta la miseria, del sangue che i miei connazionali versavano in nome del Tricolore, e di ogni altro sopruso al quale la mia patria era stata chiamata a rispondere. Tutto quel che sapevo era dovuto più alla curiosità della sorella di Ernesto che alla mia. Mi convinse ad aiutarla in quella conoscenza perché non tollerava che ci venisse perentoriamente negata.
La nostra scaltra intelligenza ci permise di escogitare i più strampalati stratagemmi per ottenere le informazioni necessarie. Apprendemmo quel che ci occorreva appostandoci, mascherate da ragazzi con vestiti che rubai al figlio del nostro giardiniere, sotto le finestrelle dei negozietti. Nessuno faceva caso a quelle strette e insignificanti stradine, e noi scoprimmo che anche in mezzo agli avvenimenti spiacevoli la gente non perdeva il gusto di spettegolare.
Altre volte ci capitò di saccheggiare i bidoni della spazzatura, quando era possibile scorgervi i bordi di qualche carta di giornale. Fu proprio la stampa a condurci alla scoperta di una realtà dieci volte peggiore all’immaginario. Tenemmo d’occhio soprattutto la notizia dello sciopero degli operai a Pietrogrado come se, dentro di noi, avvertissimo già il preludio di quel che a breve ci sarebbe toccato.
Il 1917 fu l’anno più aspro che l’Italia ebbe ad affrontare. Il malessere delle nostre truppe andava sempre più intensificandosi, moltiplicando il numero dei disertori. A questo si aggiungeva l’insofferenza popolare per l’aumento dei prezzi e la mancanza di cibo. L’invito del Papa a porre fine all’”Inutile Strage” era un urlo sordo in un etere ecatombale.
Nonostante tutto questo, il mio pensiero continuava a volare a senso unico verso una sola destinazione… Ernesto! Questa brama che mi lacerava il petto mi accompagnò per giorni. Persi il mio appetito, il sonno, la mia favella, e forse anche parte della ragione. Ero diventata apatica di fronte alla vita e al mondo. La mia indifferenza verso quelle vittime incontenibili poteva equivalere ad averle provocate. Mai mi sarebbe passato per la testa che la Ruota del Destino stava prenotando anche per la mia città, Torino, un posto in prima fila per la sua tragedia.
Tutto iniziò quella mattina del 22 Agosto 1917, quando il pane venne a mancare in tutta la città. Gli operai del nostro stabilimento, e non solo, si rifiutarono di lavorare, urlando a squarciagola davanti alle fabbriche: “Pane! Vogliamo pane! Vogliamo mangiare!” In realtà si trattava della miccia che da tempo la popolazione civile stava aspettando per insorgere contro la guerra e trasformare la rappresaglia in una sommossa politica. Come più tardi si rivelò, infatti, il mancato rifornimento era dovuto ad un vero e proprio ritardo di poche ore.
Poco dopo l’insurrezione alcuni camion che trasportavano pane giunsero tra la folla, la quale se ne impadronì, senza tuttavia rientrare ai posti di lavoro. Ciò era il risultato del rancore che quella gente si era portata appresso in quegli anni, e scoppiò quel fatidico giorno per le strade di Torino come una folgore. Migliaia di operai si coalizzarono in uno sciopero, unendosi in corteo fino al municipio.
Nei giorni seguenti la situazione non migliorò.
A casa si respirava la stessa aria che tirava per le strade. Tuttora mi chiedo dove trovasse mio padre la forza per inveire contro l’insubordinazione dei suoi dipendenti, ridotto com’era ad uno straccio. Negli occhi di mia madre leggevo tanta pena per via della preoccupazione che la consumava.
Io però non potevo far nulla. Non mi era concesso parlare, chiedere o pensare. Dovevo fingere di non essermi accorta di nulla, condurre la mia vita normalmente, per quanto possibile, e badare a non mostrarmi interessata a cose che per natura dovevano essermi precluse. La guerra e la situazione torinese rientravano tra queste. Regole, tuttavia, non sufficienti per tenere a bada la mia curiosità e la mia ansia frenetica. Capitava spesso, ad esempio che mi appostassi alla porta della sala da pranzo per origliare. Ero ben conscia del fatto che i miei approfittassero della mia assenza per parlare dell’insurrezione.
Tale metodo mi condusse ad ottenere delle informazioni il cui contenuto aveva il sapore del veleno.
Nel giro di pochissimi giorni era stata assalita la caserma delle guardie civiche e i tram carichi di zucchero e pane; in molte strade vennero erette barricate e saccheggiati quanti più negozi possibili; incendiata la chiesa di San Bernardino e il convento dei frati… queste furono solo alcune delle disgrazie che entrarono maggiormente nella mia testa. Senza contare i dimostranti uccisi, feriti o arrestati.
Mi rendevo sempre più conto che la razza umana stava impazzendo, e ne rimasi profondamente addolorata. Durante la notte singhiozzavo e pregavo spesso per la pace, per la fine di quel vano martirio, per la mia famiglia… per Ernesto. Era sempre il pensiero di lui il centro promotore delle mie azioni. L’idea che in mezzo a tutto quello scompiglio potesse esserci anche lui mi rodeva l’animo, mi logorava i sensi e bloccava le mie vie respiratorie fin quasi a sentirmi soffocare. Temevo per lui più che per me stessa, giacché ero convinta che il suo ruolo in quella storia aveva una parte da protagonista. E non mi sbagliavo. Ne ebbi conferma due giorni dopo lo sciopero.
Erano le prime ore del pomeriggio. Non avevo toccato cibo, ma non sentivo i morsi della fame. Ero distesa sul mio letto, intenta a non pensare. Improvvisamente vidi un’ombra furtiva aggirarsi all’interno del giardino che dava sulla finestra della mia stanza. Mi alzai inebetita e ciondolando mi affacciai. Lui era là, di fronte a me, che raggiante mi salutava. Ebbi allo stomaco lo stesso formicolio che mi prese quando lo vidi per la prima volta. Cominciai ad avere fame… di lui!
Senza rendermi conto delle mie successive azioni, scavalcai la balconata senza difficoltà, trovandomi al pianterreno e, col fiato corto, lo raggiunsi. Lentamente mi avvicinai a lui e vidi i suoi limpidi occhi totalmente immersi nei miei. Non avevamo bisogno di parole. Da quel momento sarebbero stati i nostri gesti a comunicare. Lui mi prese per mano ed io lo seguii aleggiando a pochi centimetri da terra. Mi fece salire sulla sua carretta e clandestinamente ci allontanammo.
Mi portò in un posto isolato, un luogo che non conoscevo. Non m’importò! Mi sentivo al sicuro con lui, in quel paesaggio immerso nel verde della natura. La vegetazione era folta e noi vi ci inoltrammo nella parte più interna. Nessuno avrebbe potuto sorprenderci così nascosti, ad eccezione del fogliame trasportato dal vento e di qualche volatile il cui canto ci giungeva da lontano.
Non appena ci fermammo, ci fissammo sorridendo per qualche attimo poi, delicatamente, si avvicinò a me. Sentivo il suo respiro contro il mio, le sue ruvide mani tra i miei capelli, sul mio collo, sui miei seni. Il mio cuore, pur pulsando per l’agitazione, ardeva di passione e, dissotterrato ogni pudico insegnamento tipico dell’epoca, con fiducia mi abbandonai all’unica persona con la quale avrei osato vivere e per la quale avrei rischiato di morire. La sua bocca trasmise alla mia l’ardore dei baci mancati. Il suo corpo, come il mio, era fatto di fuoco. Le nostre anime si sfiorarono, si toccarono, fino a fondersi in un’unica materia.
Di cosa sono fatti i sogni? Forse degli stessi elementi che compongono l’amore, l’odio, e i sentimenti tutti. Ricordo d’aver posseduto Ernesto per quello stesso istante in cui si tende la mano per afferrare un sogno destinato ad evaporare tra le dita. L’incanto di quell’istante si ruppe non appena mi riaccompagnò a casa.
Quel 24 Agosto del 1917 l’ho impresso nella mia mente come il giorno più significativo per me e come uno dei più importanti per la mia città.
Prima di sera i carabinieri riuscirono a fermare gli operai in rivolta ai due maggiori focolai della periferia, mentre cercavano di rompere lo sbarramento. Migliaia di corpi caddero esanimi nel loro stesso sangue. Il mio Ernesto era tra questi.
(Grazia Ciavarella)