Dramma di classe

"…L’indifferenza: questa è l’essenza della disumanità” (Shaw)

 

In qualsiasi classe in cui ho insegnato, la prima volta che vi sono entrato, ho avvertito subito la presenza di qualcosa, che adesso chiamerei Spirito, che è greve in una classe, leggero e alato in un'altra; tante, tante spiritualità diverse che racchiudono in sé una storia, l’energia di trenta o venti alunni.

Insegnando in un liceo mi capitò anche che mi affidassero delle classi di primo anno e anche lì, dove i ragazzi sono tra di loro degli sconosciuti, è presente questa spiritualità; questa diventa più importante, e forse anche tangibile, con il passare degli anni, cioè con il peso aggiunto di angosce, di gioie, di amori, di eventi, esperienze, speranze; ma la spiritualità di cui parlo io non è altro che l’insieme delle anime degli alunni che compongono una classe ed è perciò che è presente pure nelle prime.

In questo racconto, caro lettore, non voglio parlare di tutte le classi in cui ho insegnato, nè di tutti gli alunni che le hanno riempite, per quanto speciali siano stati tutti gli alunni per me. Voglio parlarvi, invece, della terza Z, la classe che più di tutte ha scolpito il suo ricordo nel mio cuore. Nella storia di questa classe c’è anche un protagonista, il cui nome era Marco.

Quando entrai nella terza Z per la prima volta - nei due anni precedenti fu seguita da un altro insegnante di lettere - percepii una spiritualità strana, assai, troppo diversa da quelle che fino a quel momento sentii; c’era un’atmosfera che non riuscii mai a decifrare del tutto; di certo, però, era una spiritualità colma di incomprensioni e dolori, una spiritualità negativa.  I ragazzi erano adolescenti normali, non capivo da dove e da cosa proveniva quell’atmosfera piena di negatività.

Attenzione: non sono uno stregone, un veggente che sente e prova a decifrare le parole degli spiriti. Quello di cui parlo è percepito da tutti gli insegnanti!

Da dieci anni, da quando, cioè, ho ricevuto la cattedra in Sicilia, il primo giorno di scuola leggo sempre ai miei alunni una frase di Pirandello sui siciliani e poi chiedo il loro parere.

I siciliani quasi tutti hanno un’istintiva paura della vita, per cui si chiudono in sé appartati. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura aperta, chiara di sole e ognuno da sé, taciturno, senza cercare conforti, si offre il suo dolore.

Lessi questa frase alla terza Z ancora prima di presentarmi e fare l’appello. Subito dopo aver letto presi il registro e cominciai: “Fabio Aggiusto!”. Questo risponde: “Presente!”. Quando tutti si aspettavano che proseguissi con l’appello chiesi, con viso serio, a Fabio: “Allora, come pensi  Pirandello ha descritto i siciliani?”. Un po’ timoroso, era sorpreso dalla domanda, rispose: “Con me di certo non ci ha azzeccato”.

Ho continuato così per almeno altri dieci nomi, che non riporto per non annoiare troppo; dico, ho continuato così fino a quando sono arrivato al nome di Marco Ferri.

“Marco Ferri!”, dissi. Risponde lui, più insicuro di tutti quelli che avevano già risposto: “Sì… presente… anche con me Pirandello ha proprio sbagliato”.

Ah, dissi, per non perdere troppo tempo, che insieme al nome dicessero anche il loro pensiero su Pirandello.

Quando Marco rispose tutti si misero a ridere, ma dai loro sguardi bassi, compreso quello di Marco,  non riuscii a capire per cosa ridessero e pensai (poveri professori!) che ridessero, come sovente accade,  di me,  d’un mio strano gesto o d’un mio tono di voce.

Solo quando suonò la campanella mi presentai: ”Io sono il professore Paolo Triboli, piacere! Sarò il vostro insegnante di lettere”.

E’ facile capire per un insegnante, e anche per chiunque altro, per un genitore, per un bidello, dico, è facile per chiunque entrare in una classe e capire quali siano i vari gruppetti presenti in essa, chè, per quanto maturi possano essere gli alunni, ce ne stanno sempre e fino al quinto anno.

I più secchioni, mi si perdoni il termine, si possono riconoscere perché siedono quasi sempre ai primi banchi e vestono in maniera sobria; gli sportivi per la loro aria arrogante e innocente ad un tempo; i musicisti per uno strano modo di fare che li distingue sempre, ovunque essi vadano; gli sfigati, mi si perdoni anche questo termine, per il loro aspetto normale che ne fa, al tempo stesso, persone speciali; poi ci sono singole persone che per le loro peculiarità non possono essere inserite in nessun gruppo.

Nella terza Z v’erano tre gruppi di alunni: da una parte i secchioni, un gruppo molto stretto perché costituito soltanto da due ragazzi; gli sfigati, formato da ben dieci alunni, il più numeroso e il più interessante, secondo il mio punto di vista; ed infine i simpatici, o le simpatiche, formato da quattro ragazze. Voglio ricordare che ho formato questi gruppi per rendere un po’ più chiara la situazione di questa classe, ma in verità i ragazzi sono così speciali, così diversi tra loro, più degli adulti, che è impossibile farne una veritiera classificazione.

Nella classificazione che ho fatto ho voluto escludere Marco, il ragazzo timoroso di cui ho già parlato. Amos Oz scrive: “In ogni classe, in ogni gruppo c’è sempre uno così, malvoluto, uno fuori dal comune che ovunque vada la compagnia lui si ostina ad andare sempre dietro e si trascina sempre a distanza di qualche passo da tutti gli altri…”.

Ahimè, Marco era un ragazzo fuori dal comune, malvoluto da tutti, era il solito emarginato della classe soggetto alle ingiurie di tutti i suoi compagni; era, diciamo così, il sacco che riceveva, senza lamentarsi, lo sfogo di tutti i suoi compagni. In ogni classe c’è il bisogno d’un simile sfogo.

Ricordo che tutti erano molto silenziosi, o meglio, tutti stavano per conto loro; c’era chi parlava con il suo compagno di banco, chi si raccontava nel suo diario, chi beveva dell’acqua, chi osservava, tutti facevano una cosa e sembrava avessero totalmente dimenticato quella scritta alla lavagna che invece aveva abbattuto Marco. Forse non era stata tanto la scritta in sé a ridurlo in uno stato così forte di costernazione, bensì l’indifferenza dei compagni, l’indifferenza nei confronti della loro sottile e spietata crudeltà.

“Sei un cretino!”. Queste tre parole, insieme al nome “Marco”, erano pesantemente incollate alla lavagna, potevano essere cancellate con un semplice movimento della mano, lì, nella lavagna, ma, ahi, queste parole sarebbero rimaste indelebili nell’animo di Marco e soprattutto nel nostro. Di quanta disperazione, di quanta vergogna, di quanta angoscia e rimorso si sono riempite queste disgraziate parole!

Alla vista della scritta Marco non ha reagito diversamente dalle altre volte, cioè diversamente che dai soliti insulti, dalle solite burle, o dalle solite ingiurie; il suo sguardo si volgeva verso il vuoto, era, e non solo in quell’avvenimento, uno sguardo introspettivo, tipico dei grandi pensatori e dei più ostinati introversi.

Dopo essere stato per qualche secondo davanti alla lavagna, immobile, con lo sguardo che ho appena descritto, andò a sedersi, per altri pochi secondi, nel suo solito posto. Poi si alzò e senza guardare nessuno, pure lui indifferente come i suoi compagni, uscì dalla classe, tanto che io provai a gridargli: “Marco, fai presto che tra poco la ricreazione finisce ed iniziamo la lezione!”. Chissà se mi sentì!...

Stavo scrivendo le valutazione dell’ultimo esame nel mio registro, anch’io allora ero strapieno di quell’indifferenza che tanto fa comodo, quando vidi, per caso, dalla finestra, la sagoma di un essere umano cadere velocemente verso il basso, seguito subito da un orrendo rumore d’albero abbattuto.

Ohimè, era Marco che decise di girare le spalle, per sempre, a noi ingenui indifferenti.

 

(Paolo Carella)

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