Il viaggio in montagna
(Il viaggio di un bambino)
Partimmo al mattino presto, ma il viaggio durò circa due ore buone.
Camminavamo io, mia madre e lo zio Antonio dietro l’asino, seguendo la lenta andatura della bestia, che si inerpicava su, verso la montagna, seguendo il viottolo sterrato e percorso da sempre dai contadini e dai pastori che frequentavano i posti, per lavorare le terre e per i pascoli.
Si sentiva l’asino scalpitare, in quella strada tutta in salita e piena di ciottoli e tutti, asino compreso, avvertivamo la fatica di camminare sotto il sole.
Eravamo, io e mia madre dietro, mentre lo zio Antonio, davanti all’asino lo incitava a camminare, pronunciando, ogni tanto un :”Iiiiiiiih…iiiiiih...vai, vai... bello…!”
E l’asino proseguiva svelto e deciso, guidato dallo zio che ne conosceva difetti e qualità, muovendosi con destrezza tra cardi e rovi, come fosse la sua casa. Era quello, il suo habitat naturale, nato com’era per aiutare l’uomo nei lavori pesanti.
Mentre salivamo verso la montagna, il monte Jofri, della catena aspromontana orientale, si rivelava ai nostri occhi, nella sua bellezza e maestosità, con il suo pinnacolo verde, simile ad un becco d’aquila o a una guglia di cattedrale, pieno di pini ed abeti rigogliosi com’era, che creavano macchie verdi di colore, anche in lontananza.
Superato il greto del torrente, dal letto ancora secco, ma punteggiato di oleandri di colore rosa e cespugli di erica e lentisco, con ai bordi del torrente ogni sorta di piccola vegetazione spontanea della macchia mediterranea. Si notavano, infatti, macchie di verde intenso di ginestra senza fiori, con gli aculei al cielo, l’odorosa ginestra che lì cresceva copiosa ed elettiva, in primavera, insieme a calendule ed orchidee selvatiche di ogni specie. Poi giungemmo ad una piccola pianura di cardi selvatici secchi e spinosi, mischiate a vegetazione spontanea e tipica del posto: origano, timo, nepetella e piante di “pilejhiu”, tutte sottilmente profumate e selvatiche, mentre ai bordi del torrentello gorgogliante cresceva copiosa l’edera, la capelvenere e la felce selvatica. Io, però, diedi segni di stanchezza, e lo zio, accorto, mi fece salire in groppa all’asinello. Ero ancora una ragazzina ed il peso risultò leggero per l’asino. Ma nonostante ciò, emise un forte raglio e si fermò sul percorso, tanto che ebbi paura, per la sorpresa. :ma forse era quello un suo modo di riposare.
In groppa all’asino, divertita ed anche un po’ tesa, sentivo la stanchezza della bestia che aveva i fianchi sudati per lo sforzo. Sentivo il fiato caldo dell’animale sulle mie gambe di bambina, tanto che chiesi allo zio:
“manca molto…per arrivare?””se no, scendo…!”, ma lo zio mi rassicurò, che eravamo quasi arrivati e che la bestia non soffriva, perché abituata a fare quei percorsi pieno di pesi, quasi tutti i giorni.
Poi, all’improvviso, si aprì, come per incanto, la vista della montagna gigante e nuova per me, non certo per lo zio e la mamma che la conoscevano bene da sempre. Essa si rivelava man mano ai miei occhi, in tutta la sua bellezza e maestosità, nel percorso per raggiungere il nostro piccolo podere ai piedi di essa.
Il piccolo podere era racchiuso tra due torrentelli di acqua fresca e gorgogliante, dono della montagna ed era circondato da un mare di ginestra, che quando era in fiore era uno spettacolo, ma che mia madre e le altre donne raccoglievano per trasformarla in fibra tessile per realizzare variopinte coperte e ripararsi dal freddo :la famosa lana dei poveri.
Nel podere ritrovai il grande noce e la maestosa pergola d’uva, che vivevano in simbiosi, ormai da tanti, tantissimi anni, insieme ad alberi di fichi bianchi e neri, del tipo catalano, e peri e fichi d’india al sole.
Era il tempo della vendemmia e noi si era andati a vendemmiare ed a raccogliere le noci dall’alto albero.
Mio zio, da contadino agile quale egli era, si legò alla cintola una lunga e grossa corda e si apprestò a scalare l’alto fusto del noce, munito di un paniere e di tanta pazienza e coraggio.
Salito sull’albero, incominciò a raccogliere prima l’uva e poi le noci nel paniere, con destrezza, e riempitolo lo faceva calare dall’alto, con la corda, che mia madre, svelta e ritta di sotto, raccoglieva, svuotava e rimandava su, nuovamente, dopo aver messo i frutti in due grosse “cofane” di vimini, che, in groppa all’asino, avremmo riportato a casa più tardi.
Dopo aver raccolto il tutto, mia madre prese un “sarvetto” di lino annodato che era stato tessuto al telaio da lei, di colore bianco, con le righine blu e rosse ai bordi, lo aprì, lo sistemò sull’erba e ci diede da mangiare il suo pane nero fatto in casa, accompagnato da gustoso formaggio di capra, pomodorini ed olive che erano state curate in salamoia, sfamando così la nostra nera fame. E per frutta uva e noci, che delizia…!, trasformando quel momento in un allegro pic-nic.
Io, felice e curiosa, scrutavo ogni cosa, annusavo ogni profumo della natura, deliziandomi di tutto, immersa in quella vita bucolica e nuova, sentendomi, per tutte quelle esperienze, una sorta di “Alice nel paese delle Meraviglie”, la protagonista del libro di L. Carroll, da me letto all’epoca dei fatti che sto narrando.
E con gli occhi pieni di sole, profumi, e carichi di frutti posti in groppa all’asinello, prendemmo, a sera, la via del ritorno, tutti stanchi, ma contenti per la giornata trascorsa insieme.
Mia madre, all’indomani, pigiò la nera uva nella madia del pane, ne strizzò gli acini con le mani e pose il mosto dolciastro e profumato in una grande anfora di creta smaltata ”a cortara”, mentre le noci, poste in un sacco, vennero divise tra noi e lo zio che lo portò alla sua famiglia, come ricompensa, dopo la grande fatica. Mia madre le serbò per preparare più tardi i dolci di Natale, le gustose “sammartine” che io amavo tanto.
Era, quella di allora, una vita semplice, ma faticosa.
Ma io ancora rammento quel bel viaggio in montagna, in groppa all’asino, tra tanti profumi, delizie e sapori e verde e sole, che la memoria custodisce ancora, perché legato al mondo dell’infanzia.
Quel piccolo mondo paesano adesso è svanito, anche il podere è abbandonato, e vi regna sovrana la dea natura, con le sue erbe, erbacce e rovi, che hanno pian piano soffocato il noce e la pergola. Ma... ogni cosa di allora regna sovrana nella memoria dell’infanzia.
Mia madre e mio zio non ci sono più, ma io custodisco nella memoria tutto ciò che è stato, come sacro ed inviolabile. E…la montagna è lì, muta testimone del tempo a sfidare intemperie ed a custodire i sogni. E mentre i sogni degli uomini nascono e muoiono perché ”tempus fugit”, il ricordo rimane nella mente di chi rimane a custodirlo.
Quella montagna rimase per me una sorta di montagna incantata, la “mia” montagna incantata, che nella mia mente di fanciulla stimolava sogni ed interrogativi. ”Cosa c’era dietro quel monte…?!, quali mondi magici e meravigliosi nascondeva l’alta vetta..?! Forse lì dietro si celava un mondo misterioso che io non conoscevo e che desideravo conoscere. Quel monte riusciva a scatenare la mia fantasia di bambina che, senza più briglie, galoppava immaginando fate, orchi e sibille aspromontane.
Ancora oggi guardo con stupore quella montagna incantata, pensando che ancora non mi ha svelato tutti i suoi misteri.
E…proprio ieri sera, mentre la splendida mezzaluna, campeggiava sovrana sopra il monte con accanto la stella più splendente nel cielo di aprile, mi rituffai nei ricordi dell’infanzia e diedi un’occhiatina a quel monte che per me rimane magico, incantato e popolato da sibille cumane leggendarie e mi procura ancora stupore e meraviglia per tanta bellezza e tanto mistero nascosto.
Poi, nel rimuginare i ricordi, ecco la mia poesia: ”Era tempo di vendemmia”, dedicata al tempo passato, al tempo del ricordo perché, come ben dice il Pascoli, ”Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo”.
(Maria Stella Brancatisano)
Note e traduzione dei termini dialettali o di denominazione dei luoghi utilizzati nel racconto:
1. Monte JOFRI: nome di monte dell’Aspromonte, situato nel territorio samese
2. Cofane: ceste di vimini, dette anche “cofaneglie”o “gistre” o ”gistrune”
3. Cortara: vaso di creta nel quale si riponeva vino ed olio o olive. Dalla tradizione greca e/o magnogreca del posto.
4. Tempus fugit: fugge il tempo
5. Sammartine: dolci natalizi tipici calabresi che si preparano con vin cotto, uva passa e noci.
6. Sarvetto: detto anche “jhereglia”. Dal greco, strofinaccio che si usava portare in campagna, annodato, con il cibo come colazione.