El Marsiàn

Oggigiorno si fa un gran parlare di ufo, di extraterrestri, ma ben pochi sanno che uno dei più importanti avvistamenti di extraterrestri è avvenuto dalle nostre parti, ad Onara una frazione di Tombolo.

Correva l’anno 1959 e mia zia Clorinda, come tutte le Mattine si era alzata presto ed era andata ai confini della proprietà, vicino alla campagna dei Broi per dare da mangiare alle galline. Io ero ancora un bambinetto, ma ricordo come fosse adesso che la zia ritornò a casa tutta eccitata gridando “El marsian… el marsian…”, e andò trafelata a procurasi un carrettino per trasportare in casa l’extraterrestre.

Dopo pochi minuti fece ritorno sulla corte dei Broi con una strana creatura a bordo del carrettino.

Era un bipede, alto sì e no un metro e trenta centimetri, con degli enormi occhi che mi parevano sfaccettati come quelli delle libellule, ai lati della fronte vi erano due protuberanze che tutti subito interpretarono come antenne, la pelle era, come ogni marziano che si rispetti, verdastra e diafana, tanto che lasciava trasparire delle sottili venature violastre. La creatura indossava degli abiti quasi normali che tuttavia sembravano plastificati e rilucevano alla luce del mattino.

Zia Clorinda lo rinchiuse immediatamente in un piccolo locale esterno all’abitazione che tutti chiamavamo “La stalèta del mascio”. Era un locale che nei tempi ancor precedenti serviva ad ospitare il maiale che quasi tutte le famiglie tenevano in casa in attesa del “massolìn” l’uomo che passava di casa in casa per uccidere i maiali degli amici e dei conoscenti, tanto da farne quasi una professione od un secondo lavoro.

Mia zia Clorinda era un’affarista e voleva tener nascosto il ritrovamento dell’extraterrestre per ricavarne soldi a palate sfruttando le innumerevoli doti e virtù che sicuramente l’ospite sarebbe stato costretto a rivelare presto. Purtroppo la notizia si sparse rapidamente per tutto il parentado e a mezzogiorno arrivò a casa nostra un “masciaro” (venditore e mediatore di maiali) che voleva acquistare la creatura pagando a mia zia Clorinda la somma di trentamila lire. Non era poco a quei tempi se si pensa che con meno di un milione si poteva costruire facilmente una bella casa. Il terreno poi non era suddiviso in agricolo ed edificabile. Se uno aveva della terra poteva costruirci sopra, che diamine! Per questo le case costavano anche meno e per questo era difficile, a quei tempi, trovare chi volesse fare il consigliere comunale o l’assessore all’edilizia, c’era da lavorare e nessuno aveva tempo da perdere. Non come adesso che tutti, cani e porci, si mettono in fila per entrare in comune chissà perché. Ma questa è un’altra storia.

Mia zia Clorinda rifiutò categoricamente l’offerta del masciaro. “Sé tantamila franchi… Co sto marsian qua tuti siori diventemo. Altro che trentamila franchi” disse sdegnata mia zia.

Il giorno seguente vicino alla staleta del mascio c’era una processione di curiosi venuti a vedere il marsian e tutti dicevano la loro opinione. “Bisogna darghe da magnare” diceva Ugo Campagnon“ Proa trarghe raquanti radici”. Così tutti cercammo di portare allo strano essere qualcosa da mangiare Ettore menarosto gli portò persino delle ortiche asserendo che essendo differente da noi forse gli sarebbero piaciute. Ivo Talocco gli portò delle uova di tartaruga, La Olivetta mao voleva dargli un bicchierino di Nocino che aveva fatto con le sue mani e che aveva schifato per anni tutto il paese. Il Marsian si era appollaiato sopra un paletto di gaggia tra il piccolo finestrino della staletta ed un ripiano interno al locale e sembrava indifferente a tutte quelle attenzioni, guardava 0o sembrava guardare dritto davanti a sé incurante di tutti. Finalmente la Togna Marcolin detta “Subito” che era conosciuta per essere una formidabile cuoca gli portò una delle sue migliori specialità: trippe in umido, sulle quali aveva a lungo lavorato lavando perfettamente le interiora e cucinandole a fuoco lento come si faceva nei vecchi tempi, come andava fatto, e come si dovrebbe fare anche ora che non c’è più tempo. Effettivamente il piatto emanava un odorino che avrebbe fatto venire l’acquolina in bocca anche ad un morto, ma il marsian niente, rimaneva immobile a fissare un punto davanti a sé come se il caso non fosse suo. La Togna andò su tutte le furie: ”Cossa voleo sto qua“ disse “me lo so cavà dala boca par daghe a lu” e completamente sdegnata entrò nella staleta e colpì il marsian con una violenta pedata nelle parti basse. La creatura emise due o tre profondi stridii, ai confini tra il rumore acutissimo e le vibrazioni inudibili, poi più niente. La Togna era schifata e col marsian non volle avere più niente a che vedere. Amedeo Sfuriandolo detto Rènso disse che il problema non era tanto dargli da mangiare, ma riuscire a comunicare con lui, capire cosa vuole, di che cosa ha bisogno, da dove viene ed ottenere altre informazioni. Tutti convenirono, ma il problema rimaneva, la creatura non regiva a nulla. I bambini passavano ore davanti alla staleta facendo i più strani versi “BUU gruu ignuu” niente da fare.

Ettore Baù cominciò persino ad insultare ed a sputare ripetutamente e con veemenza addosso al marsian, finchè Menego Baiocco che all’epoca lavorava come manovale di muratore si avventò sul povero Baù investendolo di pugni e sberle. Dopo la terza Katana ben assestata sul capocollo il Baù perse i sensi e Menego fu costretto a spiegare a tutti che, dopo aver ben osservato per qualche secondo la scena, era sicuro di aver capito finalmente chi lo aveva colpito per anni dalla galleria alla platea con liquidi organici di vario genere tutte le volte che era andato al cinema dal prete la domenica pomeriggio. “Sono anni e anni e anni che lo inseguo” diceva Menego, ed alla fine tutti concordarono che aveva ragione. Verso sera arrivò Oscar Morapolo detto “El foresto” perché nessuno riusciva a capire cosa dicesse. Oscar era stato per alcuni anni a lavorare in miniera in Belgio in compagnia con suo cugino Sergio Barbacan che era sordo muto dalla nascita, Oscar aveva inventato uno strano linguaggio ricco di suoni gutturali, movimenti bruschi e mitragliate di sillabe che nessuno aveva mai compreso. Non appena Oscar si mise a parlare con il marsian, magicamente questi si alzò e si avvicinò alla porta dell staleta. Era successo una sorta di miracolo, ma il problema sussisteva: Come farsi spiegare da Oscar cosa aveva capito? Si poteva tentare col muto, ma non era molto più semplice.

Oscar sparava mitragliate di sillabe a destra e a manca, diventava paonazzo per lo sforzo, si contorceva e poi cadeva a terra esausto senza che nessuno avesse capito alcunché.

Il giorno successivo venne anche don Barison, che aveva una mano per benedire ed una per maledire se non si pagavano le decime. Il prete guardò il marsian e lo benedisse in latino “Deo sanatore me ne intendo, Domine meo festina“ borbottò il prete ed asperse incenso nella staleta. Il marsian squittì due tre volte.

La situazione nei giorni successivi peggiorò ulteriormente. Il marsian sembrava un attore di un film di Antonioni sull’incomunicabilità. Apatia totale. Solo una volta in seguito alla fugace apparizione della Luigina Bea Gnoca, l’extraterrestre sembrò reagire emettendo dal basso ventre una specie di escrescenza filamentosa che ognuno interpretò a suo modo. Bepo sardea che era un uomo pratico disse “Bisogna fargli fare rassa prima che muoia, altrimenti adio bisi!”

Tutti pensarono alla Bempia Sluadrona, la mandarono a chiamare e le dissero: “Dai, fai qualcosa, salvaci: Ci è capitata una fortuna tra le mani e non sappiamo approfittarne, con l’esperienza che hai saprai bene cosa inventare” Lei si dimostrò riluttante e quasi schifata : “Per chi mi avete preso. Se non c’è sentimento io non mo ci metto” Questa frase fece andare su tutte le furie il daziaro che profetizzò “Verrà il tempo delle vacche magre e allora vedrete… Cosa sono tutte queste svenevolezze?”

Mia zia Clorinda era così delusa che era decisa a richiamare il masciaro per farsi dare almeno le trntamila lire prima che il marsian morisse.

Il problema tuttavia si risolse da solo perché il giorno seguente quando Clorinda si recò di buon mattino in staleta per controllare il suo ospite, trovò il locale completamente vuoto. Il marsian era scomparso, smaterializzato, volatilizzato senza lasciare traccia.

Ancora adesso quando chiedeo spiegazioni ai testimoni della vicenda ottengo le risposte più strane e più diverse: Mio nonno Annibale “Il marsian era un Tasso”. Ettore Bacalà “ era una pantegana con incollata una libellula sul dorso ”Medeo Magnaortighe”. El marsian gera quatro cani” Miro Canastreo “Tanti schei podevimo ciapare… tasi…tasi…” Don Carlo Moradò “Non è successo nulla.. nulla… fantasie… fantasie… un brutto sogno…” Circolo culturale Bepi Sgombro : E’ incredibile, avevamo un’occasione per aumentare le nostre conoscenze sull’universo ed abbiamo pensato solamente ai soldi. Non abbiamo fatto niente per comprendere questo meraviglioso essere” Circolo culturale Toni Ramandolo” E’ incredibile questa creatura aveva la grande occasione per contattarci, gli abbiamo dato tutto, ci siamo fatti in quattro ma lui e non ha fatto niente per farsi capire. Siamo scandalizzati.”

Io tuttavia penso che una cosa sola sia certa: “Quelli sì, quelli di una volta erano i veri marsiani, non quelli di adesso, non ci sono più i marsiani di una volta. Quelli di ora sono solo inventati per riempire le pagine dei quotidiani locali d’estate quando non c’è niente da dire.

 

(Annibale Bertollo)

 

I marziani e gli abitanti della terra

 

La specialità in cui io ed il mio amico Gilbert eccellevamo da ragazzi, era quella del mangiare grandi serie di ghiaccioli durante le lunghe estati della nostra giovinezza al patronato di Tombolo. L’arte della degustazione dei ghiaccioli è attualmente, a torto, poco considerata ma a quei tempi aveva raggiunto il suo culmine proprio al patronato di Tombolo. Durante l’Estate degustavamo per delle ore, io partivo sempre dal ghiacciolo arancio tanto per scaldarmi le papille gustative, dopo alcuni ghiaccioli passavo al giallo (gusto limone) e solo molto avanti negli anni, a fine carriera, ho azzardato il verde (la menta). Gilbert essendo meno ortodosso di me variava più spesso I gusti. Io usavo preferenzialmente l’impugnatura continental: indice e medio dietro lo stecchino pollice davanti. Usavo questa impugnatura perchè permetteva la facile rotazione antero-posteriore del ghiacciolo e consentiva una notevole precisione nei movimenti. Gilbert invece usava la eastern: Indice e pollice con in mezzo lo stecchino. Penso di detenere ancora il record del patronato di Tombolo che significa anche il record italiano: 19 ghiaccioli in mezz’ora. Una domenica pomeriggio di Luglio cominciai quella serie vincente con l’arancio, passai al limone e terminai tra gli applausi di tutti con il 19vesimo ghiacciolo verde menta. Oggi siamo rimasti in pochi a capire il ghiacciolo: io, Gilbert, Gennaro Esposito a Napoli, i sardi Puddu e Ruio e pochi altri. Sembra che la scuola sia ancora fiorente in Sud America: Dicono che un certo Gomez, Paraguaiano, detenga il record mondiale con 43 ghiaccioli. Avrebbe cominciato una serie di gusti tropicali ed avrebbe terminato trionfante dopo 43 ghiaccioli col maracuja. Mah, per me siamo due scuole diverse; Innanzi tutto loro impugnano Western, poi usano gusti tropicali: insomma loro sono loro e noi siamo noi, come diceva Gilbert i marziani sono i marziani e gli abitanti della terra sono gli abitanti della terra e mai e poi mai le due fazioni potranno capirsi profondamente. I giovani di oggi non sanno più mangiare ghiaccioli come si faceva una volta, cominciano le serie direttamente dal verde senza passare per i gusti propedeutici, usano gusti strani come ad esempio anice e Coca Cola. A proposito del gusto Coca Cola è giusto spendere due parole per dire che esso è una vera americanata e non è mai stato omologato in un patronato serio. Se uno volesse proprio passare al colore marron perchè non scegliere il più classico tamarindo o chinotto?

I giovani non capiscono queste fondamentali differenze, non capiscono che la degustazione dei ghiaccioli non è una gara, per lo meno non è solo una gara, ma una disciplina, quasi una disciplina zen. Non distinguono un Orsetto da un Motta, impugnano male il ghiacciolo, degustano a temperature bassissime tanto che si anestetizzano le papille gustative e le rendono inservibili ad un uso corretto. Ai miei tempi riconoscevamo la marca di un ghiacciolo da lontano, dal rumore che faceva frangendosi contro i denti di un compagno. Oggi io e Gilbert non gareggiamo più, siamo semplici collezionisti ed amatori. Io posseggo in frigo un rarissimo pezzo, si tratta di un Orsetto di annata 63 gusto chinotto, introvabile, serie limitata e sperimentale che la ditta non produsse più per scarsità di domanda. È un pezzo che non ha valore, ma data l’ignoranza di oggi in materia, rischia di non avere proprio alcun valore. Non importa, tanto ci sono legato per motivi sentimentali ed affettivi e non lo cederei mai per nessuna cifra, come Gilbert non cederebbe il suo cedromenta del 68. Per noi sono oggetti simbolo che ci riportano alla nostra adolescenza nell’assolato cortile del Patronato di Tombolo dove vigevano regole leggi e gerarchie interne molto dure e che sebbene non fossero scritte, erano comunque sempre rispettate da tutti come fossero state cose talmente evidenti da non avere bisogno di ulteriori spiegazioni od interpretazioni. I preti del patronato finivano per fungere da arbitri ed assecondare tutte queste regole.

 

(Annibale Bertollo)

 

 

 

Chi ci ha creato?

 

Chi ci ha creato?

Quando studiavamo la dottrina di San Pio X, la risposta a questa domanda era breve e semplice: Ci ha creato Dio.

Una volta per fare lo spiritoso risposi: “Ci ha creato Oid”. Don Massimiliano, il mio maestro di dottrina, mi si avvicinò, mi pose le sue grosse mani sopra le orecchie e si mise a strofinare di buona lena fino a ridurre i miei padiglioni auricolare a due ammassi informi di carne rossi e caldi.

Altri miei compagni più scafati rispondevano a bassa voce: “Ci ha creato Doi” riferendosi al soprannome (alla menda) di una nobile famiglia tombolana.

Non volevamo mancare di rispetto ed ancor oggi se andate a Tombolo e fate questa domanda ad un mio coetaneo rimarrete stupefatti dal costatare l’uniformità delle risposte, i più diranno: “Ci ha creato la maestra Casonato”. La maestra Casonato era una vecchia e brava maestra elementare di Tombolo. Una minoranza di studiosi risponderà: “Ci ha creato, molto prima, la maestra Rina”. La maestra Rina era la maestra Caterina Rizzardi, la mia maestra. Va da sè che anch’io appartengo a questo gruppo. Comunque gli assertori della superiorità poietogenetica della Casonato ci rispondevano: “Ci ha creato sì, ma era già tardi, la maestra Rina Rizzardi”. I sostenitori della Casonato ammettevano sì una possibilità creatrice della maestra Rina, ma solo in un secondo momento, quando era già tardi e la Casonato aveva già compiuto il suo lavoro.

Questa dicotomia di pensiero ha dato origine alla teoria della doppia creazione. Secondo questa teoria vi sarebbe un primo universo Casonato ed un successivo universo Rina in diverse dimensioni spazio-temporali. I due universi in determinate condizioni potrebbero comunicare l’uno con l’altro. Questa ipotesi spiegherebbe il fenomeno del deja vu ed anche certi stati dissociativi nei quali ad una persona sembra di vivere una doppia vita.

Alcuni grandi santoni, alcuni sciamani del passato affermavano di poter passare da un universo all’altro a loro piacimento, ma soltanto in presenza di un’immagine formato naturale di Topo Gigio e soltanto con un grande sforzo di concentrazione.

Altri studiosi di dottrina, i più mistici, si azzardavano una forzatura linguistica: “Ci ha creato con tanto rispeto il maestro Jijieto”. Il maestro Gigetto era il più mistico dei maestri di Tombolo, quasi un santo.

E’ straordinario notare che molti paesi riconoscono ai maestri di scuola elementare una sorta di vis creativa. A Cittadella ancor oggi molti dicono: “Ci ha creato Bino Rebellato”, famoso poeta scrittore editore, ma soprattutto maestro elementare.

Invece a Fontaniva : “Ci ha creato Piero Capellato”. Quest’ultimo non era maestro di scuola, ma impiegato comunale. Molto strano. Qualcuno dovrebbe studiare questa peculiarità e farci una pubblicazione.

 

(Annibale Bertollo)

 

 

 

Un giro in giostra

 

Cinquanta anni fa la fiera di Cittadella, non sembrerà vero, ma era una delle poche occasioni che alcuni giovani di allora, avevano per uscire di casa e per divertirsi.

C’erano alcune ragazze di campagna che avevano negli occhi ancora quello stupore del mondo tanto descritto e rimpianto da molti poeti: la meraviglia. La meraviglia di tutto. La giostra: Che meraviglia! La musica: Che meraviglia! I fuochi artificiali: Oooh… Che meraviglia! Alcune giovani (anime perse) già da allora andavano a ballare. Altre avevano frequentato soltanto l’azione cattolica, la famiglia, che talvolta era molto burbera, e la scuola, severissima e tutt’altro che preoccupata a dare libertà agli scolari. Forse parlavano più di adesso che ci rincitrulliamo davanti alle telenovelas e ai verity show, ma sicuramente erano meno scafati, più rispettosi di tutto ed un tantino più rimbambiti, anzi, non rimbambiti ma semplicemente più bambini. Molti risparmiavano per mesi per potersi permettere qualche giro in giostra, altri, meno provinciali e più audaci, tentavano di diventare milionari alla pesca di beneficenza o addirittura alla tombola.

Dopo tanti risparmi e tante attese, alcune signorine di allora dalla testa cotonata, truccate e vestite di tutto punto per la fiera, meravigliate ed intontite di tutto, salivano per la prima volta in giostra, sugli autoscontri. La musica era assordante, il giostraro col microfono commentava: Venghino, gentili signorine, venghino! Tutti i maschi sugli autoscontri iniziavano la caccia. I primi scontri laterali altro non erano che una piccola schermaglia, un gentile approccio. Cominciavano quindi i primi violenti scontri frontali sottolineati da fischi, urla e risate, ma il piatto forte era lo scontro frontale anteriore, seguito subito dopo dallo scontro posteriore. L’esito dell’intera manovra dipendeva dalla scelta di tempo: minore era il tempo intercorso tra i due eventi e maggiore era l’effetto psico-fisico sulle ragazze. Lo scontro perfetto esigeva il mutuo accordo tra due o tre macchinette. Due giovani urlanti e sorridenti si precipitavano a colpire sul davanti la vetturetta delle ragazze, mentre da dietro un solo giovane, alto, serio, di nero vestito ed abbondantemente imbrillantinato con una gamba sporgente dalla sua vetturetta, dava il colpo di grazia senza scomporsi minimanente, senza muovere un muscolo del viso. Erano i tempi delle spume all’arancio e lui era il figo della giostra, un vero e proprio professionista, tomber de femmes professionista. Quelli erano i veri colpi di frusta cervicali, non quelli di adesso con tanto di perizia e di 2% di danno bilogico, che hanno messo in difficoltà (peraltro se la meritano) tutte le compagnie assicurative. Da allora siamo diventati, come dice il cantante, “rampanti ed intraprendenti, sempre meno contadini, sempre più figli di puttana”. Ecco che tra colpi in avanti e colpi indietro, musica assordante, scintille blu che zampillavano dalla soprastante rete elettrica, si compiva il miracolo. Il cervello delle brave giovani, abituato a stimoli blandi e delicati, se non assenti, riceveva contemporaneamente una dose massiccia di forti segnali. Sì va bene, c’erano pure delle leggere lesioni anatomiche: qualche leggera emorragia subaracnoidea, qualche piccolo stravaso di sangue all’interno della sostanza cerebrale, qualche piccolo coma, due o tre giorni, non di più, ma dal lato psichico avveniva anche un certo qual risveglio da un lungo letargo. L’occhio acquistava una nuova luce e lo sguardo una maggior velocità e si sbaucavano fuori”. Ricordiamo per gli appassionati di lingue che “sbaucare fuori” è un phrasal verb padovano e bisogna capirlo. Questo era il significato psico-pedagogico del giro in giostra: si vedeva, tutti vedevano che le ragazze erano cambiate dopo l’esperienza. Si vedeva tanto che a volte Don Elpidio ne convocava una in confessionale: “Cosa hai fatto, sembri così diversa, non avrai mica fatto qualche peccato strano?”

“No padre, un giro in giostra, non è mica peccato”

“In che senso un giro in giostra?”

“Come in che senso?”, rispondeva la giovane, che era si svegliata, si era sì sbaucata, ma non del tutto.

 

(Annibale Bertollo)

 

 

Non nominare il nome di Dio, Ivano

 

Il motivo che mi spinge a scrivere questo racconto non è quello solito di raccontare delle storie che a me sembrano belle ed interessanti. Questa volta ho una ragione molto più seria, niente meno che, cercare di salvare l’anima ad un sacerdote.

 

Ecco i fatti. Giudicate voi.

 

Quando frequentavo le scuole medie a Tombolo, avevo un compagno di classe che si chiamava Ivano. Ogni tanto Ivano durante le lezioni, quando si annoiava, dava delle grandi testate alle pareti dell’aula. Le prime volte, ad udire quelle cannonate, tutti rimanevano sorpresi, ricordo che anche i professori dalle classi vicine accorrevano per rendersi conto personalmente di quanto stava accadendo, poi quando ci accorgemmo che era solamente Ivano scoppiammo tutti in una grande risata e nessuno ci fece più caso. Anche il preside quando udiva quei rombi dal suo ufficio, dopo un attimo di perplessità rassicurava i suoi ospiti con un sorriso: ”Niente paura, è solamente Ivano che si sfoga, non fateci caso”.

A parte questo piccolo difetto, Ivano aveva anche un’altra caratteristica: Ogni tanto durante le lezioni nominava il nome di Dio e dei santi invano: Era un’innocente abitudine che aveva preso da bambino e che portava avanti senza alcuna malizia e senza alcuna intenzione di offendere. Durante le ore di religione, il prete, don Massimiliano, per farsi bello agli occhi della classe gli diceva: “ Non nominare il nome di Dio Ivano” e credendo di aver fatto una battuta esilarante ridacchiava in modo sarcastico cercando di coinvolgere i più secchioni.

Ivano non rideva, si sentiva preso in giro, la cosa non gli andava a genio: ”Essere presi in giro sì, ma proprio da un prete no”, diceva. Così, per rimediare alla brutta figura, cominciava a pronunciare sottovoce qualche bestemmia vera e a fare boccacce al prete non appena quest’ultimo si girava da un’altra parte. Purtroppo un giorno don Massimiliano lo vide, lo fece avvicinare alla cattedra, gli pose le grosse mani ai lati della testa, sulle orecchie, e strofinò forte per qualche secondo. Al termine dell’operazione le orecchie di Ivano erano rosso porpora, emanavano un certo calore che si poteva avvertire anche dagli ultimi banchi ed emettevano una calda luce rosso violacea simile a quelle che si possono vedere nelle discoteche, nei locali notturni e nei night. Don Massimiliano poi, mandò Ivano fuori dalla porta in castigo. Come tutti noi intuimmo immediatamente, Ivano, fuori della porta della classe, recitò un intero rosario di bestemmie, le più varie, le più fantasiose. Ora, nel giorno del giudizio universale, queste bestemmie sicuramente saranno una colpa di Ivano che avrebbe si11uramente potuto non proferirle utilizzando il libero arbitrio. Tuttavia, il fatto che tutta la classe aveva facilmente intuito un simile comportamento, non discolpa certo don Massimiliano che, usando l’accortezza di “un buon padre di famiglia” avrebbe dovuto capire anche lui, la conseguenza delle sue provocazioni. Quindi il libero arbitrio di Ivano non interrompe il nesso di causalità tra la provocazione di don Massimiliano ed il terribile peccato di Ivano. Il buon Dio sicuramente darà un concorso di colpa anche a don Massimiliano, il prete avrebbe infatti potuto redarguire Ivano in un modo diverso, magari spiegando, e soprattutto senza quella segreta soddisfazione che traspariva palesemente dai suoi occhi . Supponiamo che questo concorso sia del 25%, poiché Ivano è rimasto in castigo per quattro minuti, ad occhio e croce, il prete si vedrà gravato da un fardello di 70- 80 terribili bestemmie. Mentre Ivano, che malgrado tutte quelle botte in testa non era affatto scemo, avrà tutto il tempo di pentirsi, magari in punto di morte, come farà a pentirsi l’inconsapevole don Massimiliano?

Io non sono preoccupato per il mio compagno perché il suo angelo custode che fungerà da avvocato difensore nel giudizio finale, anche se non dovesse pentirsi, proprio utilizzando tutte quelle botte in testa potrà facilmente chiedere la semi infermità mentale e cavarsela con qualche migliaio di anni di purgatorio. Ma cosa potrà dire l’angelo del prete? Quali scusanti potrà avere?

Sono preoccupato perché l’eternità è piuttosto lunga, e certe serate non passano mai, figuriamoci con il carattere nervoso di don Massimiliano.

Quindi ho scritto queste righe sperando che voi le pubblichiate, il prete le legga e possa pentirsi. E questo è un fatto.

 

(Annibale Bertollo)

 

Psicoanalisti-dentisti

 

In questi ultimi anni, una delle professioni dell'area medica che sta sempre di più affermandosi, è quella dello psicoanalista-dentista. Non esiste al mondo psicoanalista che almeno una volta nella sua vita non abbia provato un forte impulso verso l'odontoiatria e questo non solo per motivi meramente economici.

L'aspirazione contemporanea verso la psicoanalisi e verso l'odontoiatria rappresenta infatti un tentativo disperato di far quadrare il cerchio, una ricerca delle coincidetiae oppositorum che tutti gli uomini di ogni tempo hanno sempre avuto. Capita quindi anche a quotatissimi psicoanalisti, dopo anni di sedute, di progressi e regressi, di tentativi di suicidio interpretati come tentativi di fuga dalla terapia, (a tal proposito ricordiamo che lo psicoanalista Freudiano classico, rincorre il paziente col conto in mano, fin dentro al loculo), di essere colti dalla fregola di cavare un dente al paziente. E questo per risolvere certamente e definitivamente, almeno per una volta, un problema pratico e non dover rivedere mai più quella faccia. E' un raptus. C'è poco da fare.

Anche Freud, il padre della psicoanalisi, aveva questa segreta aspirazione. Molti sostengono infatti che il suo primo lavoro intitolato "Sulla Cocaina" non fosse altro che un tentativo, peraltro geniale, di introdurre la droga come anestetico in chirurgia odontoiatrica. Il fatto che non abbia mai parlato di questa sua legittima aspirazione nei suoi successivi lavori si deve al meccanismo inconscio della rimozione. Del resto Freud, ai suoi tempi, quando rimuoveva, era l'unico che sapeva cosa stava facendo. Non come oggi che rimuovono tutti, cani e porci. Di Jung invece si dice che avesse una mano particolarmente felice soprattutto nelle estrazioni degli ottavi inclusi. Quanto ad Adler, non ne parliamo proprio, quasi tutti i suoi allievi e tutti i suoi pazienti affermano senza ombra di dubbio che le sue capacità in campo odontoiatrico erano senz'altro superiori di quelle psicoanalitiche.

L'aspirazione verso la psicoanalisi dei dentisti invece si rende evidente ai loro congressi e nelle scuole di specializzazione. Forse sentendosi in colpa o in inferiorità, trattano la loro materia come se invece che di denti si parlasse di biocibernetica. Se uno volesse sentire qualcosa di veramente teorico e complesso potrebbe frequentare un corso (non di quelli a pagamento) di odontoiatria. Le disquisizioni sull'embriologia della cuspide di Garabelli o sui vacuoli citoplasmatici degli odontoblasti durano per anni nei corsi universitari, quanto poi alle problematiche relative ai materiali odontoiatrici, penso che un ingegnere che lavora alla NASA non avrebbe la preparazione teorica di base per capire tutte le dissertazioni tenute sull'argomento. E' una specie di legge del contrappasso che lo studente deve pagare (e che riproporrà non appena divenuto professore come una coazione a ripetere) per aver scelto una specializzazione così eminentemente pratica e redditizia.

Cavare i denti non si insegna. Si impara solo.

 I più liberi tra gli psicoanalisti e fra i dentisti lo fanno veramente. Voglio dire cavano complessi, trapanano resistenze, analizzano cuspidi ed interpretano solchi.  Dentisti al mattino e psicoanalisti la sera di solito, ma non è obbligatorio, si può fare anche viceversa, meglio non dirlo alla Società Italiana di Psicanalisi però.

Come sarebbe bello ed anche psichicamente economico se si potesse parlare liberamente: "E Lei professore dove va?"

“Beh, io vado all'ospedale di Noale è un reparto dove si impara, soprattutto la conservativa, molto pratico, anche Cesare Musatti si è formato lì. Pratico, molto pratico”.

 

(Annibale Bertollo)

 

 

Andare a donne a cinquant’anni

 

Un uomo sulla cinquantina, per andare a donne ha bisogno delle seguenti cose:

 

1)      I capelli

Una capigliatura decente è molto importante. Non si può bleffare con artifizi o riporti vari, altrimenti si rischia di diventare ridicoli. Molto meglio allora un buon trapianto o fare buon viso a cattiva sorte e rasarli molto corti, però non è la stessa cosa.

 

2)      Essere magri e moderatamente sportivi

La donna non ama il panzone assonnato e sempre stanco. Se volete dedicarvi a questa attività, è opportuno cercare di perdere i chili di troppo senza fare di questa attività il vostro chiodo fisso, altrimenti perderete di vista la vostra meta e vi interesserà di più il vostro peso e la forma fisica piuttosto che le donne stesse. Questo atteggiamento verrà subito riconosciuto dalla donna che non lo gradirà. Ricordate che è lei che vuole essere al centro dell’attenzione, non il vostro corpo. Narcisisti!

 

3)      Essere alti

Se vi chiedono quanto siete alti dite sempre: circa un metro e ottanta. La donna tende a credere molto più a ciò che sente piuttosto che a ciò che vede. Specialmente se è ben disposta verso di voi. Se è maldisposta lasciate perdere. Del resto potete usare tacchi interni ed esterni guadagnando così preziosi centimetri. Se si avvicina a voi alzatevi anche leggermente in punta di piedi, oppure sfruttate ogni appiglio logistico, scalini, rialzi del terreno ecc... Se ad esempio state conversando vicino ad un albero, con una mano attaccatevi ad un ramo e con nonchalance sollevatevi delicatamente dal terreno senza darci un gran peso. Continuate la conversazione in questa posizione finchè non sarete esausti, poi con una scusa slanciatevi il più lontano possibile da imbarazzanti paragoni ed abbandonate il campo. Sembra un po’ complicato, ma che volete da me.

 

4)      Avere una laurea

Se siete ragionieri o periti, non lo dite. In questo caso glissate, dite che siete piccoli imprenditori, che vi siete fatti da soli, o mentite spudoratamente. La laurea in psicologia è controindicata. A meno che non siate inseriti in qualche struttura universitaria od ospedaliera, la donna giustamente vi considererà dei semplici “sfigati” e non vi starà nemmeno più ad ascoltare.

La laurea in Ingegneria è molto buona come pure quella in Economia e Commercio. Se siete laureati in Giurisprudenza dite che avete già superato l’esame di stato. La laurea in medicina è abbastanza considerata, ma attenzione, preparatevi ad ascoltare tutta una serie di disturbi fisici e di teorie sull’omeopatia e sulle medicine naturali ed alternative che metteranno a dura prova il vostro sistema nervoso. Nulla potrete obiettare a tali teorie o verrete considerato un medico impreparato, grezzo e superficiale.

 

5)      L’automobile

Alla vostra età è ora di smetterla di essere alternativi. Basta con le Dian o con catorci simili. E’ nettamente consigliata la Mercedes o la BMW. Attenzione però, non bleffate acquistando un vecchio rottame di BMW di dieci e più anni credendo di farla franca. La donna più miope ed apparentemente più addormentata ha l’occhio di una lince ed il cervello di una volpe per quel che riguarda queste faccende. Ricordatevi che quando parlerà di voi con le amiche non vi designerà col vostro nome e cognome nè tantomeno menzionerà le vostre qualità morali. Dirà semplicemente: quello con la Golf GTD bianca, oppure quello con la Mercedes Seek metallizzata ecc… ecc… L’automobile quindi deve avere al massimo due o tre anni di età, dev’essere ben tenuta e con tutti gli optionals. Mentre guidate vi consiglio di ascoltare le seguenti canzoni di Paolo Conte: Wanda, L’ultima donna che avremo, Per ogni cinquantennio i sempre in gamba, Lo scapolo.                                                                                                                                                                           

 

6)      L’abbigliamento

Anche qui finitela di essere alternativi: basta con le magliette, basta con i jeans. Quando vi deciderete ad acquistare un bel principe di Galles od un Ermenegildo Zegna? E la cravatta, volete proprio che ve la mettano solo quando sarete in cassa da morto? Lo so, vi stringe il collo e vi da un’aria che non è la vostra, specialmente se non vi siete abituati, ma o adesso o mai più. Se non avete la sensibilità per abbinare i colori della cravatta con i calzini con la camicia e con il vestito, fatevi aiutare da vostra moglie. E’ il momento di essere impeccabili. Andiamo per i cinquanta.

 

7)      I soldi ed il potere

Se avete il potere allora sicuramente avrete anche i soldi. Ma se non avete potere almeno abbiate il buon gusto di avere soldi. I soldi rappresentano sia la forma liquida del potere, nel senso che possono essere immediatamente fruibili, sia la forma cristallizzata dello stesso, nel senso che possono essere intesi come una particolare forma di potere messo da parte ed utilizzabile anche quando il vero potere non c’è più. Non sono tuttavia trasformabili immediatamente nel vero potere e le donne lo sanno bene, tanto che possono anche disprezzare chi ha molti soldi ma è molto difficile che   disprezzino chi ha molto potere.

Non è però sufficiente avere soldi, bisogna anche essere disposti a spenderli con una certa classe e senza farlo pesare.

Se rispetterete i seguenti sette punti, forse riuscirete a conquistare qualche donna anche a cinquant’anni. Se però, oltre a conquistarla, desiderate anche che vi voglia un po’ di bene, allora dovrete fare qualcosa di molto più difficile e costoso.

Dovrete cercare di essere voi stessi. Lo so, specialmente a cinquant’anni, quando cambiare è un po’ più difficile di prima, essere sè stessi è la cosa più difficile del mondo. Accettare di essere e di apparire quell’irascibile un po’ triste e soprattutto noioso, noioso, noioso individuo non è affatto semplice.

Irascibile, sempre incazzato, triste e noioso, qualche volta anche felice, sicuramente libero, quasi mai alla moda, ma tuttavia unico al mondo nel suo genere, alla faccia delle centinaia di commendatori quasi tutti uguali con la cravatta, la Mercedes ed il BMW.

 

(Annibale Bertollo)

 

 

 

Fritz il mio amico cane

 

Acquistai Fritz vicino al Caffè Pedrocchi, da uno di quei vecchietti che girano per il centro città attorniati da una nuvola di minuscoli cani. Vidi un piccolissimo cucciolo nero che, seduto in disparte, non giocava con tutti gli altri, e che, ogni tanto, come ricordandosi di un passato dolore, guaiva piano.

Mi avvicinai, lo accarezzai e fu amore a prima vista.

“Di che razza è?” Chiesi al vecchio.

“Fox terrier mosca, una razza indomita” mi rispose.

Disse Fox Terrier mosca con la stessa sicurezza con la quale avrebbe detto pastore tedesco o Labrador.

In realtà Fritz era un bastardino di circa due mesi, molto simpatico, a cui avevano da pochissimo mozzato la coda per farlo assomigliare ai Fox Terrier.

Acquistai il cagnolino per poche lire, lo portai a casa, gli diedi da mangiare e lo accarezzai per consolarlo per tutte quelle novità che, suo malgrado, erano entrate a far parte della sua giovane vita. Mi si affezionò subito e senza fatica. Man mano che i giorni passavano cominciò a manifestare anche la sua vera natura:“ Non un cane, ma una gallina” dicevano i miei amici. Infatti, passava tutto il giorno a raspare in giardino, faceva buche, razzolava. Nessuno si sarebbe meravigliato se avesse deposto anche qualche uovo. Col passare del tempo aveva messo su anche una piccola pancia che conferiva rotondità alle sue forme.

Nonostante la malignità dei miei amici, io capii subito che Fritz, malgrado le dimensioni, poteva essere considerato anche un cane da guardia o da difesa personale. Con gli insetti era veramente indomito ed instancabile. Una volta riuscì persino a mettere in fuga una cavalletta enorme. Ricordo ancora lo sguardo pieno d’orgoglio che mi lanciò e che io ricambiai. Coi gatti, invece, aveva adottato una tattica tutta sua. Rimaneva seduto a rispettosa distanza dal felino e solo quando quest’ultimo si muoveva per andarsene, si alzava ed inseguiva abbaiando la preda. Se il gatto si fermava di colpo, Fritz spariva per una mezza giornata per riapparire improvvisamente davanti a me, fingendo allegria come se nulla fosse successo, con un sorriso indifferente tra le labbra. Non gli ho mai rinfacciato queste figuracce e di ciò mi è sempre stato grato.

Il suo affetto per me cresceva ogni giorno di più. Quando mi vedeva mi correva incontro alla massima velocità e si scalmanava poi in mille feste.

“Guarda quel cane” disse un giorno un passante “E’ lento ma veloce”. Era vero.

Fritz nella corsa s’impegnava al massimo e nelle curve s’inclinava di quarantacinque gradi come un motociclista. Sembrava sempre al limite, le orecchie e la lingua sporgevano lateralmente attratte dalla forza centrifuga, ma la sua velocità massima raggiungeva appena i 7 od 8 km/ora in discesa. Questo perché disperdeva gran parte delle sue energie in oscillazioni laterali ed in oscillazioni della testa. La sua andatura in movimento era un misto di balzelli in avanti e di sbandamenti laterali, più che avanzare sembrava che si avvitasse nell’aria. Preso in un’istantanea, tuttavia, poteva sembrare quasi un levriere, tanto esprimeva velocità ed impegno nella corsa. Io mi commovevo sempre quando lo vedevo apparire e venirmi addosso con quell’andatura “lenta ma veloce”.

Quando tornavo dal lavoro mi seguiva continuamente ed ovunque, tanto che una volta sfruttai questa sua propensione a seguirmi per fargli un piccolo gioco.

Lo feci trattenere da un amico ed andai a nascondermi. Fritz, che era forse l’unico cane a non usare l’olfatto per cercare, partì immediatamente appena lasciato dal mio amico e si slanciò in una pericolosa sbandata in curva, poi si fermò perplesso e sbalordito di fronte a quel mondo ostile che lo lasciava senza padrone. Dopo questo primo tentativo, decisi di nascondermi sempre nel medesimo posto, dietro ad una porta. Dopo alcuni tentativi Fritz capì, e senza indugiare venne correndo a trovarmi e mi riempì di feste.

Ricordo ancora i suoi guaiti quando cambiai nascondiglio. Fritz ormai era tranquillo, aveva capito il gioco e si era diretto scodinzolando dietro alla solita porta. Quando non mi vide, si mise a guaire disperatamente, come tradito da un universo poco sicuro. Il suo lamento esprimeva un dolore universale, il suo mondo non era più quello di prima. Sembrava Euclide messo a confronto con Einstein: “Ma come, esistono anche le geometrie non euclidee? E allora cosa abbiamo studiato a fare finora?” Il divenire era una categoria insopportabile per un piccolo cucciolo nero innamorato del suo padrone. Lui voleva le sue certezze. Per fortuna tutti i dubbi filosofici di Fritz terminarono non appena mi ritrovò, infatti smise immediatamente di guaire ed incominciò una girandola di feste come non aveva fatto mai. Decisi di non ripetere più il gioco, perché troppo crudele.

Purtroppo l’abitudine di Fritz a seguirmi dappertutto gli fu fatale .

Un giorno mentre tornavo dal lavoro non notai che Fritz mi stava seguendo come il solito alla massima velocità, con tutta la foga dettata da quel suo immenso amore per me. Correndo non si accorse che tra me e lui stava sopraggiungendo un gigantesco Tir. Incurante di quel piccolo ostacolo, si slanciò verso di me, con la massima fiducia, ma il suo corpicino fu preso sotto le ruote del camion.

Feci solo in tempo a gridare “no, fermo!” Ma ormai era già troppo tardi.

Nonostante la frattura del bacino e le lesioni a chissà quanti organi interni, Fritz continuò a trascinarsi fiduciosamente verso di me, convinto che io potessi in qualche modo lenire il suo dolore, e fu proprio così: quando mi raggiunse appoggiò la sua testina quasi soddisfatto sopra le mie mani mi leccò e smise per sempre di guaire.

 

(Annibale Bertollo)

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