Una storia d’altri tempi

 

Giuseppina sostiene di essere stata sempre sfortunata nella vita. Per esempio, quella mattina all’inizio degli anni ‘venti, lei giura che il suo pennino da disegno si conficcò nella fronte di Berto non per causa sua, ma ciononostante tutta la colpa e le relative conseguenze, ricaddero su di lei.  Giuseppina stava immobile seduta al banco di scuola con la mano destra appoggiata al mento e la punta acuminata della matita che stringeva tra le dita,  sporgeva oltre il suo viso, rivolta all’indietro. Fu il suo compagno di classe che, per cercare di copiarle il compito, appena la maestra voltò le spalle agli alunni, si lanciò in avanti con la testa andando ad incocciare con la fronte proprio contro la punta del pennino. Benché si trattasse solo di un graffio, il sangue cominciò ad uscire copioso e un po’ per il dolore, ma molto più per lo spavento, Berto iniziò a piangere e a urlare a squarciagola accusando dell’accaduto la compagna di classe. Vani furono i tentativi di Giuseppina per convincere la maestra che le cose erano andate diversamente. D'altronde nessuno degli altri alunni, per paura della reazione di Berto, che era considerato un capobanda, confermò la versione della bambina. La maestra iniziò immediatamente a menare ceffoni sulla testa e sulle mani di Giuseppina. Dopo alcuni minuti sembrò che l’ira punitrice si fosse placata, ma fu solo una breve pausa necessaria all’insegnante per riprendere fiato e per armarsi di una bacchetta con la quale riprese con maggior veemenza a colpire la bimba. Giuseppina piangeva e si raccomandava affinché terminasse quell’ingiusta punizione, ma più lei implorava pietà, tanto più la maestra pareva perdere il controllo delle proprie azioni. In classe non si sentiva volare una mosca, tutti gli scolari erano atterriti perché percepivano chiaramente la cattiveria che guidava quella reazione spropositata. Lo stesso Berto era allibito e sinceramente dispiaciuto per come stessero andando le cose. La maestra cessò di picchiare la bambina solo quando la piccola smise di piangere e, pietrificata dal dolore, stava ormai immobile con la testa raccolta tra le braccia e le gambe. L’illusione che quella follia fosse terminata durò poco, infatti, non ancora appagata, l’insegnante la prese per un braccio e la trascinò verso il gabinetto. Si trattava di uno stanzino buio e maleodorante la cui definizione corretta sarebbe dovuta essere: latrina. La bimba fu spinta lì dentro e quando sentì che la porta veniva chiusa a chiave dall’esterno, ricominciò a piangere e a implorare di non essere abbandonata in quel luogo schifoso e terrificante. Anche questa volta l’insegnante fu irremovibile e la lasciò in quella prigione oscura e puzzolente. A mezzogiorno e mezzo, dopo avere trascorso più di due ore rinchiusa dentro quel cesso, Giuseppina, sentendo suonare la campanella che annunciava la fine delle lezioni, pensò che il suo iniquo supplizio stesse per finire, ma anche questa volta si sbagliava. La maestra, non si è mai saputo se per dimenticanza o a causa dell’estremizzazione della sua follia, se ne andò dalla scuola chiudendo il portone alle sue spalle e abbandonando Giuseppina in quella galera. La bambina comprese con disperazione ciò che stava accadendo. Affranta si lasciò cadere sulle ginocchia e appoggiò il volto bagnato di lacrime alla porta del bagno nell’illusione di proiettarsi in tal modo all’esterno di quel luogo orribile.  Il tempo non passava mai. Il buio e il silenzio facevano dilatare a dismisura il senso di angoscia che stava dilaniando la piccola vittima. Fu Berto, che da ometto come lui si sentiva, pensò di dovere porre rimedio al torto che stava subendo la sua amica. Andò a casa di Giuseppina dove trovò il suo babbo che era rientrato da oltre un’ora dal lavoro nei campi, e avendo constatato che sua figlia non aveva ancora fatto rientro da scuola, imprecava, convinto che lei si fosse fermata a giocare per strada con qualche amichetta. Berto gli spiegò invece cosa era realmente accaduto e dove si trovasse in quel momento Giuseppina. Il padre, come era in uso a quel tempo, in genere approvava incondizionatamente i metodi educativi degli insegnanti, ma quella volta ebbe un sussulto di rabbia e appena Berto ebbe finito di parlare, uscì da casa e si diresse verso l’abitazione della maestra. Come se niente fosse accaduto trovò l’insegnante intenta a riordinare la cucina dopo che aveva pranzato insieme alla sua famiglia. La vista di quella tranquilla scenetta domestica acuì ulteriormente il senso di sdegno dell’uomo, perciò, appena dentro casa, si scagliò furioso prima contro la donna e quindi aggredì anche il marito, che peraltro era stato suo compagno d’armi. Lo prese per il bavero della giacca e gli sbraitò sul muso che gli avrebbe spaccato la faccia se solo si fosse azzardato a difendere la moglie. La maestra abbozzò un timido tentativo di giustificazione, ma vista la reazione del genitore della sua alunna, senza ulteriori indugi, prese la chiave della scuola e si avviò con passo svelto verso l’edificio scolastico. Il babbo di Giuseppina la seguiva a pochi metri di distanza continuando a urlarle dietro affinché accelerasse l’andatura. Il marito della donna lo tallonava a sua volta, cercando di rabbonirlo farfugliando che sua moglie non era cattiva, solo che in quel periodo soffriva di nervi e, di tanto in tanto, compiva delle azioni delle quali lei stessa dopo poco tempo si pentiva amaramente. Ma lui non voleva sentire ragioni, gridava che avrebbe continuato a sputtanare quella pazza per tutto il paese finché non fosse stata cacciata via dalla scuola. Il marito, però, continuò a supplicarlo chiedendogli, anche in nome dell’amicizia che li aveva uniti durante la grande guerra, di non rovinare lui e la sua famiglia. Alla fine il padre di Giuseppina, che in fondo era una gran bravo uomo, accondiscese alle richieste del vecchio commilitone, ma lo avvisò che non avrebbe mai più voluto sentire sua figlia lamentarsi, per nessun motivo, dell’insegnante.

Quando la porta del bagno si aprì Giuseppina stava ancora in ginocchio con la faccia appoggiata all’uscio.  Vedendo suo padre in piedi di fronte a lei, per la prima volta in vita sua, percepì tutto l’amore del quale era capace quell’uomo burbero e scorbutico.

Giuseppina, nonostante i nove anni, in quel frangente volle comportarsi da donna. Senza degnare di uno sguardo la sua aguzzina si alzò in piedi, con la manica del grembiule si asciugò le lacrime che le solcavano il viso, si diresse verso il babbo  e  gli gettò le braccia al collo con tale determinazione che ai presenti sembrò che chi stesse compiendo quel gesto, non fosse una bambina minuta e impaurita alla ricerca di conforto e protezione, ma una ragazza forte e matura che poteva, finalmente, riabbracciare il suo ritrovato amore.

 

(Maurizio Bassani)                                                                 

 

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