Fiori di lacrime

(in memoria di Jean Luc Leancrenoy e dei giovani tragicamente scomparsi)

 

La storia che sto per narrare è assolutamente vera e riguarda il dottor Robert Libor di Avignone che ha dedicato la sua giovinezza alla Liberazione, nel deserto della Mauritania.

Prima di morire, pochi anni orsono, ha scritto il libro “L’Enfant trouvé, l’Enfant perdu“ - Barré & Dayez Editeurs Paris – 1993.

Ciò che propongo in questo racconto è tratto da un suo dattiloscritto in francese che ho avuto da un vecchio amico comune. Non quindi dal libro che è una ricerca delle sue origini attraverso la Francia, per approdare alla giovinezza trascorsa nel Sahara come ufficiale, subito dopo la guerra, negli anni del colonialismo

Racconto che ho tradotto e ampliato secondo il mio stile e la mia sensibilità. Fedele alle parole originarie.

 

Era il 22 dicembre del 1947. Ci trovavamo ai bordi dell’Oued Seghelil, una pianura di sabbia e di pietre ai piedi di un monte roccioso a circa quaranta chilometri da Atar, nello sconfinato deserto della Mauritania. Pochi cespugli di erba alta e secca ad una trentina di palme dattifere dal fusto esile. “Piedi nell’acqua e chiome nell’inferno” si suol dire da quelle parti.

Viveva in quel luogo, sotto una tenda tessuta di peli di cammello, un vecchio uomo. Unico bene, una capra. Solitario, la barba bianca, un sant’uomo secondo il Corano. Il Marabut.

Ad ogni passaggio di carovana, egli riceveva un obolo: the verde e zucchero. Qualche volta, un sacco di miglio e datteri essiccati.

Venivano da lontano, dall’Idjil o dal Bontilimit, per rendere omaggio alla sua saggezza ed alla sua fede; per avere un consiglio o sollecitare un giudizio. Era, come si suol dire, un Giusto.

Lo si vedeva assorto in contemplazione con una corona in mano, una specie di rosario, di grani brillantissimi. Le dita nodose scorrevano i grani e la bocca arida semichiusa scartabellava litanie. Come nenie.

Delanney ed io, destinati da qualche tempo al gruppo nomade Le Goum, eravamo partigiani. “Gli uomini blu dagli occhi di giada”, così ci chiamavano.

I nostri cammelli brontolavano al riparo della parete rocciosa. Il pelo bruno rossiccio li omologava al paesaggio.

Una carovana che noi dovevamo intercettare e controllare era annunciata proveniente d’Agui e dal Rio de Oro. L’aspettavamo all’oasi, sosta inevitabile.

La nostra missione in quel luogo, consisteva nel contare gli uomini, i cammelli e i pacchi di thè, di zucchero, di tabacco e di tessuti.

Non era permesso vendere, durante il percorso, parte della merce ai nomadi o ai mercanti. Anche nel Sahara, la dogana controllava i suoi diritti e li esigeva all’arrivo.

In effetti, la nostra missione era militare e condotta con discrezione. Si trattava di censire le armi autorizzate e di confiscare le altre per evitare il loro traffico. Inoltre i nostri partigiani eccellevano nel raccogliere informazioni sugli avvenimenti e sugli incontri avvenuti entro la frontiera, determinando così gli spostamenti delle tribù nomadi.

Nelle ore meno calde del giorno, noi seguivamo il corso dell’Oued, o meglio, le sue tracce sulla sabbia in fondo alle dune laddove l’acqua era visibile. Durante il giorno cacciavamo qualche gazzella per la cena. Si facevano cuocere i pezzi migliori. I nostri partigiani si incaricavano di essiccare il resto tagliato in fini lamelle chiuse nelle Gherbas (otri di pelle di capra) per meglio conservarle. Hanno un buon gusto, ma si debbono masticare a lungo.

Il vecchio Marabut, dopo il pasto serale, si univa a noi (gli indigeni non mangiano mai davanti agli “infedeli“) per bere il the tradizionale.

Egli stendeva per terra il suo tappeto di cuoio, cesellato come il suo volto. Il più giovane dei partigiani preparava, seguendo il rituale, la bevanda caldissima, molto zuccherata e profumata con foglie di menta.

La conversazione aveva inizio. Tutti seduti, gambe incrociate, attorno al tappeto e ai bicchieri.

Sid Ahmed Ould Moktar, il Marabut, era veramente un affascinante narratore in un buon francese con frequenti locuzioni nella sua lingua. Era comprensibile.

I suoi racconti vertevano sulle interpretazioni delle sacre scritture che, per i Beduini, erano veramente verità sacre. Oppure sulle vecchie leggende trasmesse nel corso del tempo, attorno ai fuochi del bivacco, bevendo il the o dentro le capienti tende quando le notti del deserto diventano glaciali.

Da parte nostra, si parlava delle usanze francesi o delle famiglie. Delle nostre città. Più sovente, ascoltavamo. La sua voce si perdeva nella notte e si faceva notte.

Quella sera avevo portato uno di quei fiori pallidi e rari che a volte si trovano su alcune piante spinose ai piedi delle dune. Fiori che si aprono tra l’alba e l’aurora. Quando il sole è alto nel cielo, la corolla si chiude e il fiore rinasce con la prima luce di un altro mattino.

Il vecchio saggio faceva girare il corto gambo del fiore, ormai secco, fra le dita.

Non si deve, mi disse, togliere alla terra il fiore selvaggio perché potrebbe essere un fiore di lacrime. Non proseguì il discorso quella sera, né io gli chiesi altre spiegazioni.

Due giorni dopo, Natale per i cristiani, la carovana da noi attesa, arrivò alla sorgente d’acqua. Prima un cammelliere esploratore, poi tutta la colonna. Quindici uomini e quaranta cammelli carichi di imballi solidamente legati ai loro fianchi.

Scaricati i cammelli, gli uomini blu, sfaccendarono a sciogliere i pacchi di merce e noi facemmo un rapido inventario. Lasciammo poi la carovana organizzarsi per l’abbeveraggio dei cammelli che doveva durare tuta la notte. Quaranta cammelli assetati bevono non meno di tremila litri di acqua da prendere nel pozzo, gherba dopo gherba e passata a catena da uno all’altro. Un duro lavoro nella notte glaciale.

Verso sera andammo a prendere congedo dal vecchio Sid Ahmed sedendoci attorno al tappeto di cuoio e bevendo il the.

Faceva più freddo. Il vecchio si coprì bene con il suo djellabah. Aprì un libro di preghiere dove aveva posto il fiore che gli avevo donato. E raccontò:

Un giorno il Profeta arrivò in un villaggio arabo sperduto fra le dune. Era un anno di terribile carestia. Gli abitanti, nell’abbandonare le case di terra battuta, si erano lasciati dietro, ai margini del villaggio, una decina di monticelli coperti da una pietra piatta orientata verso la Mecca. Giacevano là sotto, coloro che non avevano resistito alla fame. Un poco più indietro, pietre più piccole, indicavano che sotto riposavano i corpi di bambini e adolescenti. Ed erano tanti.

Il Profeta meditò a lungo. Poi, mentre il sole tramontava al di là delle sabbie, si mise a piangere.

L’indomani, all’alba, mentre Maometto ed il suo seguito riprendevano il loro cammino verso la lontana Medina, videro pallidi fiori cresciuti in mezzo alla pista. Nessuno li colse.

Da allora, in quella regione di Hedjaz, nella lontana Arabia, si dice che quando un bambino muore, in qualsiasi parte del mondo, Dio versa una lacrima. Laddove essa tocca la terra, durante la notte, un fiore nasce.

Il vecchio eremita dell’Oued Seguelin, chiuse il suo libro, terminò di bere il the, si alzò e disperdendo con i piedi le ultime braci accese, rientrò nella tenda.

In quel tempo non conoscevo, come ora, la sventura, madre di una tristezza che mi avrebbe accompagnato per i restanti giorni della mia vita.

E oggi, dopo quarant’anni, è riaffiorata alla memoria questa storia della mia giovinezza, vissuta al di là del mare, in un mondo desolato dove la sopravvivenza è alimentata in gran parte dalla fede e dalla forza dello spirito. Oggi, in cui tu ragazzo mio, hai visto la Vita svanire in uno stupido incidente, mentre l’amavi, la sentivi, la realizzavi.

E ho voluto raccontarvela, o amici, per chiedervi di non cogliere mai, nelle vostre passeggiate campestri, quei fiori che nascono fuori dei boschi, su di un sentiero o sui suoi bordi.

Sono fiori di lacrime, come affermava il vecchio Marabut.

 

(Giliana Azzolini)

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